Andrew e Damon, la leggenda delle voci degli uomini straordinari e della loro generazione..

Andrew Anthony e Damon Albarn. Questi nomi ai più, ovviamente, non vogliono dire proprio un granché, anzi, parliamoci chiaro, non vogliono dire proprio un bel niente, eppure, ognuno di noi, sicuro, ha tanti, tantissimi, troppi aneddoti che collegano la propria infanzia a questi due signori. Ma andiamo con ordine: se vi chiedessero quali sono gli uomini di calcio che hanno segnato la vostra generazione, voi chi rispondereste ? Per me, ad esempio, che ho vissuto gli anni del Fenomeno Ronaldo, la domanda è alquanto inutile e stucchevole. Vostro padre magari vi risponderebbe Maradona, mentre i fratellini più piccoli direbbero Messi. Eppure, se proprio vogliamo essere pignoli, se proprio vogliamo parlare di uomini di calcio e non solo di calciatori, Andrew Anthony e Damon Alban hanno segnato la generazione di tutti noi. Anche un po’ più di Ronaldo. Anche più in alto di Batistuta e Zinedine Zidane. Si perché mentre il Re Leone o il fuoriclasse di Bento Ribeiro non sono mai entrati in casa nostra, Andrew e Damon hanno bussato, si sono accomodati sul divano facendosi spazio tra sacchetti aperti di patatine e bottiglie vuote di Coca Cola e non se ne sono più andati. Mai più. Anche oggi, se fate attenzione, ma davvero attenzione, loro sono ancora li. Potete ancora sentirli con le loro voci uniche ed irripetibili riportarci indietro di almeno 22 anni. Si perché Damon Albarn iniziava dove Andrew Antonhy finiva. Si perché mentre Andrew, una volta esaurite le dovute e necessarie preghiere sussurrate in qualunque lingua del mondo possibile e nelle quali racchiudevamo la speranza che quel gioco cippato e masterizzato comprato da un qualche senegalese a 10mila lire partisse esattamente dopo la presentazione del logo Play Station, ci faceva entrare in quel mondo sospeso a metà tra finzione e realtà con il suo inconfondibile “EA Sports it’s in the game”, rendendo immortale una frase di cui nessuno di noi a mai capito nè il significato nè tanto meno la pronuncia, storpiandolo in qualunque modo possibile ed inimmaginabile, né tanto meno l’utilità, senza renderci conto che invece ben presto sarebbe stata l’apoteosi dell’inutile, la cosa più importante delle cose assolutamente non importanti della nostra infanzia, sopratutto all’epoca e che ad oggi invece risultano così fondamentali ed indispensabili per aprire un baule profondissimo pieno di ricordi e nostalgia. Ecco, dicevamo, mentre Andrew, di professione giornalista per il “The Guardian” ma appassionato di video giochi per vocazione, pronunciava con quella sua voce robotica quella frase ipnotica introducendoci per sempre in un mondo parallelo dal quale non usciremo del tutto mai più, Damon Albarn, dopo un paio di giri batteria e chitarra elettrica, faceva partire con tutto il fiato che aveva in corpo quell’urlo inconfondibile che riconosceremmo pure se fossimo sperduti da soli in piena notte su una canoa nel Rio delle Amazzoni. “Uuuh uh”. Partiva Fifa ‘98. Partiva Song 2. La colonna sonora di un’intera generazione, che non smetterà mai di cantare e ringraziare i Blur per questo capolavoro adolescenziale. Anche io, fan quasi maniacale dei nemici odiati Oasis, non posso che inchinarmi impotente davanti a cotanta bellezza. Davanti a tutto quello che una simile canzone riesce a grattugiare in fondo all’anima per far riaffiorare pomeriggi indimenticabili. Irripetibili. Pomeriggi in cui altro che Ronaldo e Roberto Carlos messo ala sinistra, Gabriel Omar Batistuta e Hernan Crespo, Zinedine Zidane e Youri Djorkaeff. Altro che tutto. Nessun duo sarà mai all’altezza dell’accoppiata vincente Andrew Antonhy e Damon Albarn, la coppia d’oro di uomini leggendari e straordinari a capo di una generazione di sognatori che ancora non hanno smesso di farlo e che, sopratutto, non ha alcuna intenzione di smettere.

I pugnalatori di topi

La storia dell’umanità è piena zeppa di leggende in cui è la vittima a dare alla luce il proprio carnefice. Il calcio non fa eccezioni. Dal Milan è nata l’Inter. Da studenti di Bilbao tifosi dell’Atheltic, stanziati a Madrid, è nato l’Atletico. Da alcuni calciatori insoddisfatti della Fluminense nacque il Flamengo. Anche l’Argentina può raccontare il proprio delitto consumato tra le mura domestiche. È l’estate del 1905 e il Club de Gimnasia y Esgrima de La Plata è già nato da 18 anni. È infatti il 3 giugno del 1887 quando Saturnino Perdriel, che sarà anche il primo presidente, Ramón Falcón, politico e militare argentino, e una cinquantina di soci danno vita, nella Camera di Commercio di La Plata, al club di futbol ancora in attività più antico di tutto il Sudamerica, basti pensare che la città di La Plata fu fondata soltanto cinque anni prima. Ha origini nobili il Gimnasia, tanto che agli inizi è nato come società praticante ginnastica e scherma, da cui deriveranno i nomi (Gimnasia e Esgrima) che ancora oggi la caratterizzano. Avevano anche costruito una squadra di calcio pronta a partecipare al campionato argentino, ma poi decisero di ritrarsi, considerando il calcio uno sport da poveri, e continuando a preferirgli attività più borghesi come gli sport indoor. È proprio questo fuggire ormai già sull’altare che fa infuriare alcuni membri della squadra, studenti sia dell’Universitá di La Plata che delle superiori, che decisero di strappare la loro tessera di soci e fondare il proprio club calcistico. Così, i loro sogni si avverano la sera del 4 agosto 1905. Nel suo nome, c’è la propria storia.
Ecco allora che quella che per tutto il mondo è l’Estudiantes de La Plata, gli “Studenti di La Plata” appunto, per gli argentini sarà sempre e solo il Pincha, o per usare l’apodo, il soprannome, intero “Los Pincharratas”, i Pugnalatori di topi. Varie sono le teorie del perché di questo epiteto: alcuni dicono che derivi dalla specializzazione di alcuni dei fondatori del club, studenti che frequentavano all’Università la Facoltà di Medicina e che erano soliti vivisezionare piccoli roditori. Altri, più romantici, e questa sembra essere anche la versione adottata ufficialmente dal club. giurano che derivi dal soprannome di uno storico tifoso di inizio ‘900, tale Felipe Montedónica, un senzatetto che quando non assisteva alle partite del “León”, altro soprannome dell’Estudiantes. aveva il vizio di pungere i topi. Nato nel 1898 nell’interno dell’Argentina, Felipe si trasferì giovanissimo con la famiglia a La Plata, città all’epoca giovane in rapida espansione e che poteva offrire sicuramente più opportunità lavorative rispetto alle province bucoliche e arretrate all’interno del paese. In un’intervista a “El Tiempo” del 1980, Montedónica confessò di aver iniziato a lavorare già nel 1910, all’età di 12 anni. “Avevo un fratello più piccolo. Con lui iniziai a lavorare al mercato. Scaricavamo la frutta e stavamo attenti alla mercé la . Lì c’erano molti topi, e il nostro maggior compito era tenerli lontani, rincorrendoli con un pungolo, “un tenedor””, una forchetta. “Cose da bambini, che iniziano a darsi i soprannomi per ogni cosa. La voce si è sparsa e ben presto io divenni il “Pincharrata”. L’anno dopo Felipe ha iniziato ad andare allo stadio, il glorioso 1y57, chiamato così perché ubicato all’intersezione tra la prima e la cinquasettesima strada, per seguire la squadra del pueblo della città, l’Estudiantes. Poi le trasferte in treno insieme ad un centinaio di tifosi. Il suo idolo di infanzia era Delfìn Lazcano, attaccante albirrojo del 1913. “Uno dei in grandi finalizzatori che io abbia mai visto”. Ben presto il soprannome “Pincharratas”, per colpa o grazie a lui. fu esteso a tutti coloro che decidevano di tifare Estudiantes. Era un uomo alto di quasi due metri con l’animo nobile, anche se non possedeva niente, lavoratore e dal grande cuore. La sua unica passione era quel fanatismo per il Pincha. Col passare del tempo diventa amico di calciatori, dirigenti e tifosi che vengono su dalle nuove generazioni. Diventa una specie di istituzione in città, tanto che ben presto il club decide di farlo entrare gratis al “Jorge Luìs Hirschi”, l’altro nome del 1y57. Hirschi fu uno dei soci fondatori del club in quel lontano 4 agosto del 1905. Tessera numero 44. Capocannoniere della promozione del 1911 e uno degli artefici del titolo argentino del 1913, durante l’era amatoriale. Nel 1914 decise di lasciare il calcio per seguire la professione di medico. Fu presidente del club dal 1927 al 1932, e il principale fautore della costruzione dello stadio, che gli fu intitolato nel 1970. Proprio negli anni in cui Felipe era sempre presente allo stadio. Juan Robledo, figlio del proprietario del Bar “Los Vascos” che si trova proprio davanti lo stadio, giura di averlo sempre visto la domenica davanti i cancelli del tempio dal 1950 al 1980, quanto lui aveva già più di quarant’anni anni mentre il piccolo Juan solo 12.
Ben presto il Pincha diventa uno dei giganti del Sudamerica, e uno dei club più popolari e famosi del paese. Nel 1914 vince la prestigiosa Copa Rio de La Plata, l’antenata della Copa Libertadores, che venne disputata dal 1913 al 1955, contro i campioni del campionato uruguagio, il River Plate di Momtevideo. Nel 1931, il primo anno di calcio amatoriale in Argentina, l’Estudiantes schierava una formazione fortissimo che scendeva in campo con il futuristico modulo 2-3-5. La difesa era composta dai fratelli Sbarra, Raúl e Roberto, mentre quei cinque la davanti giocavano un calcio così angelico e meraviglioso da essere soprannominati “Los Professores”. Lauri-Scopelli-Zozaya-Ferreyra-Guaita, quest’ultimo oriundo che nel 1934 diventerà campione del Mondo con l’Italia di Pozzo. Sarà invece Zozaya a segnare il primo gol ufficiale dell’era professionistica del calcio argentino.
Ma sono gli anni ‘60 a consolidare la nascita della leggenda. Agli inizi del decennio il Pincha sta creando una squadra giovanile fortissima, tanto da essere soprannominata La Tercera que Mata, le giovanili che uccidino. In effetti, poco ci mancherà. È infatti la base della squadra che sarà quella fortissima e insuperabile formazione guidata da Osvaldo Zubeldia che di lì a poco salirá sul tetto più alto del continente e poi del mondo. Nel 1967 i biancorossi vincono il Metropolitano. Poi tre Coppe Libertadores di fila, dal 1968 al 1970, cosa mai successa prima. La squadra di Zubeldia era un misto di classe e avanzi di galera prestati al calcio. Picchiatori senza scrupoli che non avevano paura di niente, ma che poteva vantare ta le sue fila anche due laureati: Carlos Salvador Bilardo, ginecologo, e Raúl Madero, medico generale.
Il loro gioco era basato essenzialmente sulla fisicità e sulle ripartenze dettate dalla classe di Bilardo in regia. In difesa Ramon Aguirre era un vero e proprio galeotto, tanto che sarà arrestato e incarcerato per un mese dopo la finale di Coppa Intercontinentale del 1969 insieme ai compagni di squadra Alberto Josè Poletti, portiere, e Eduardo Luján Manera, terzino, rei di aver praticamente distrutto la faccia del milanista Néstor Combin, argentino di nascita che ha scelto la nazionalità francese e per questo ritenuto dagli albicelesti un traditore. A fine gara, come racconterà anni dopo Rivera, gli organizzatori della Fifa furono costretti a consegnare la Coppa al Milan direttamente negli spogliatoi. Ma quella squadra era sopratutto immagine e somiglianza del suo leader carismatico fuori e dentro il campo, Juan Ramon Verón, la “Bruja”, la strega, calciatore meraviglioso capace di giocate sensazionali e di prestazioni con gli occhi iniettati di sangue. Sarà lui a segnare all’Old Trafford al 7 minuto del primo tempo il gol, poi raggiunto da un ininfluente 1-1, che regalerà all’Estudiantes la sua prima unica storica Intercontinentale ai danni del Manchester United di George Best, Denis Law e Bobby Charlton. Il ritorno in patria è un trionfo di cui la gente parla ancora. Così come continua a parlare di quel filo sottile, a tratti invisibile, che rende poetico e unico il Sudamerica. Un filo teso che unisce due epoche, due ere, due mondi che sembrano lontani e invece sono lì, pronti a toccarsi. Baciarsi. Prendersi per mano. Un filo che immaginariamente unisce il 1968 al 2009, rendendo quasi una formalità quarantuno anni di attesa. Quel filo si chiama Veron, e collega Juan Ramon a suo figlio, un certo Juan Sebastian, uno che noi in Italia conosciamo bene. Uno che fino all’età di diciotto anni faceva il gommista e che ben presto diventerà uno dei centrocampisti più forti degli anni ‘90 e seguenti. Juan Sebastian non calciava, regalava emozioni. Non esiste azioni di una delle sue squadre che non sia passata prima dai suoi piedi. Brevettata. Approvata. Quella fascetta bianca appena sotto il ginocchio destro è una poesia che un giorno potremo raccontare ai nostri nipoti. La storia dei Veron non può essere scissa da quella del loro club, l’Estudiantes. Bisognerà infatti aspettare l’avvento di un’altra strega, stavolta più piccola, “Brujita” appunto, perché il Pincha possa salire sul tetto del Sudamerica ancora una volta. Ecco che allora, il Tricampeon, come amavano chiamarlo i propri tifosi prima di quel 15 luglio 2009, grazie sempre a un Veron, e che Veron, e grazie ai gol di Mauro Boselli e della “Gata” Gastón Fernandez e alla difesa monumentale di Alejandro Desabato e Rolando “El Flaco” Schiavi, acquistato dal club solo per giocare quattro partite, le due semifinali e le due eventuali finali, è proprio grazie a loro se dopo più di quaranta anni il club del pueblo de La Plata può diventare il Quattro volte campione d’America.
Il Sudamerica è quel luogo dove un club è legato ad una dinastia. Dove si devono aspettare quarant’anni perché non uno a caso, ma proprio il figlio di quello che era leader un tempo, che giocava nello stesso ruolo, con lo stesso numero, possa calcare le orme del padre. Possa riaccendere quella passione per quella maglia che generazioni e generazioni si tramandano come la cosa più preziosa che hanno in vita loro. Mentre lassù Felipe Montedónica al triplice fischio allo stadio Mineirão sarà sicuramente scoppiato a piangere così come Juan Sebastian quaggiù, ringraziando il Gimnasia per il suo rifiuto, per aver vinto un solo titolo nella sua storia, un campionato nel lontanissimo 1929, il tutto mentre cercava di difendere dall’invasione finalmente la propria casa, quella nuvola che tanto sognava in vita, scacciando e punzecchiando qualche topo maledetto.

Vestirsi bene, comportarsi male: come ha fatto Stone Island a cambiare per sempre il modo di pensare del calcio europeo

Può un marchio di abbigliamento italiano, nato agli inizi degli anni ‘80 in un paesino di 6.000 abitanti della provincia di Modena di nome Ravarino, conosciuto più per i suoi tortellini in brodo e i cestini di vimini che per le sue influenze stilistiche, cambiare per sempre la storia della subcultura calcistica europea? La risposta sembrerebbe proprio di sì. Già. Si perché quando Massimo Osti, visionario designer e stilista Made in Italy, una sorta di Leonardo da Vinci del tessile, un Ricky Le Roi prestato alla moda anziché alla Metempsicosi della regressive trance, nel 1982 decide di lavorare un tessuto bicolore reversibile, usato di solito per la copertura dei rimorchi dei camion, niente sarà più come prima. Nasce in quel momento la ‘Tela Stella’: un materiale altamente resistente a cui viene applicato un lavaggio “stone-wash” estremo, praticato con pietre abrasive, per conferire a quel tessuto un aspetto usato e vissuto. Osti, che soltanto l’anno prima aveva già fondato un altro marchio destinato a diventare anch’esso un’icona fenomeno di culto e del quale parleremo dopo, creò sette giacche interamente fatte con questo materiale usato nei trasporti senza aspettarsi un simile successo che invece fu senza precedenti: la collezione andò esaurita in soli 10 giorni dall’uscita dei negozi. Scelse allora di chiamarla “Stone Island”, ispirandosi a due parole molto ricorrenti nei romanzi di Joseph Conrad, scrittore polacco naturalizzato inglese che narrava spesso nei suoi racconti di viaggi in mare solitari e che il buon Massimo amava leggere. Con due semplici parole Osti spiegò al mondo la sua idea di abbigliamento: funzionale ed ispirato al mondo militare appunto, sopratutto quello della navigazione e dei capitani di ventura, dove l’abito non è un ornamento ma un oggetto fondamentale. Gli abiti Stone Island dovevano vestire gli avventurieri del 21esimo secolo. E ci sono riusciti alla grande. Fu così ideata l’inconfondibile e famosissima mostrina nera con raffigurante la rosa dei venti e venne applicata sul braccio sinistro, proprio come si fa con i gradi militari. Lo stile adesso aveva finalmente la sua funzionalità. L’anno dopo la fondazione entra in società Carlo Rivetti, che porta con se nuove idee e tecniche innovative, come la Ice Jacket, il famoso giaccone che cambia colore quando cambia la temperatura. Ma come ha fatto un marchio nato più quasi per caso e come più una sfida sperimentale che con l’intenzione di diventare un fenomeno di massa, riuscire ad entrare così nel cuore, e nel portafogli, di milioni di ragazzi in tutto il Vecchio Continente? La leggenda narra che i primi ad indossare con assidua frequenza i capi Stone, facendone un loro indelebile marchio di fabbrica, furono i paninari milanesi degli anni ‘80, quei gruppi di fighetti che stazionavano fuori le bancarelle degli stadi, dellle fabbriche e delle discoteche in attesa di giovani e non, affamati di salsicce bruciacchiate, cipolle rosse e maionese in barattoli da 20 chili. Si dice che siano stati proprio loro a lanciare la moda spostatasi piano piano in Inghilterra come una vera e propria epidemia quando, i tifosi inglesi in trasferta in Italia per seguire le loro squadre nelle coppe continentali contro Inter e Milan e ritornati finalmente a viaggiare per l’Europa dopo la fine delle sanzioni dovute alla strage dell’Heysel, e al seguito della propria nazionale impegnata ad Italia ‘90, iniziarono a chiedere a quelli uomini che li sfamavano prima e dopo le partite quale fosse il nome di quella marca di vestiti così caratteristica e unica nel suo genere, appropriandosi così di quel look nuovo e originale, mentre fino a quel momento erano abituati ad indossare marchi autoctoni britannici come Fred Perry o Aquascutum. Ben presto, molto presto, Stoney, così la chiamano gli inglesi, diventa un simbolo indissolubile del movimento ultras mondiale. Anche e sopratutto grazie ad un testimonial involontario, che dette la spinta decisive al marchio verso l’immortalità. Carlo Rivetti infatti racconta che Eric Cantona, non proprio un calciatore che passava inosservato, era solito comprare abbigliamento Stone Island in un negozio di Manchester che si chiama Flannels. Si dice che Cantona, sempre molto incline alla moda e ai bei vestiti, da buon poeta maledetto prestato al calcio quale era, impazzisse per il marchio. Così, dopo un paio di interviste in cui compariva in bella vista la tipica rosa dei venti, si è scatenato il finimondo. The King, Umbro per necessità ma Stone Island per passione, è stato involontariamente l’anello di congiunzione che mancava all” ‘Isola rocciosa’ per unire il marchio alla fama globale. “È la natura stessa del prodotto a piacere agli sportivi: ha una radice militare, influenze workwear, ed è comodo per andare allo stadio. Non ti bagni il culo, per farla breve. ci cercano perché in un momento in cui tutto si sposta verso lo streetwear, noi siamo percepiti come quelli che l’hanno sempre fatto, e a un certo livello. È un fatto di credibilità. Non siamo gente che arriva adesso e cavalca l’onda. Siamo sempre stati lì ad aspettarla come in Un mercoledì da leoni” disse una volta Carlo Rivetti. Come dargli torto. “Vestirsi bene, comportarsi male” diventa ben presto lo slogan di chi affolla le “terraces” inglesi. Chi di noi, se solo la povertà non fosse una brutta bestia, non ha mai sognato di indossare già quasi vent’anni fa quel lungo cappotto che Pete Dunham indossa con tanta spavalderia e sfrontatezza in Green Street Elite, cosi simile ad un generale che comanda il proprio plotone? Tutto merito di Carlo Rivetti e Massimo Osti, uno che ha anche fondato forse il secondo marchio più alla moda nel ramo dei tifosi di football: C.P. Company, con l’iconico giacchetto Mille Miglia con gli occhiali da sole incorporati nel cappuccio. Storie “made in Italia” con sottotitoli in inglese. Storie di calcio, anche se fuori dal campo. Storie di un Re venuto da Marsiglia che ha insegnato agli inglesi come nessuno al mondo, anche mentre aspettiamo che ci cucinino panini imbottiti di salsicce, cipolle e maionese aperta da tre settimane, figuriamoci in altri contesti, sa vestirsi come noi maledetti italiani.

Chi ha vissuto l’East London Derby non ha paura di niente..

“Nei Docks di South London ho vissuto situazioni peggiori”. Beh, in effetti c’è da immaginare che ci siano state delle serate fredde del gelido inverno londinese lá per le strade e nei pub di quella parte di città così lontana dalle luci di Piccadilly Circus e la sacralità di Trafalgar Square da far paura. Ma paura davvero. Molta. Come dargli torto. È questo quello che Roy Larner ha detto ai suoi amici che sono andati a trovarlo nel reparto di terapia intensiva del St Thomas’s Hospital dopo che si è preso qualcosa come otto fendenti con dei coltelli che di solito sono quelli usati dai macellai per vivisezionare i quarti di bue. Ha appena affrontato tre terroristi dell’Isis armati fino ai denti che hanno fatto irruzione nel pub dove stava cenando a suon di birre e noccioline e lanci di freccette, il Black and Blue, e forse, disturbato anche e sopratutto più dalla maglia dell’Arsenal che indossava uno dei jihadisti, piuttosto che dalle loro armi affilate come rasoi, si è alzato di scatto e ha affrontato il pericolo stringendo le nocche e urlando “Fanculo, io sono del Millwall”. Il suo gesto eroico ed i suoi pugni duri come la pietra hanno permesso agli altri clienti del locale di scappare mentre lui rimaneva da solo ad affrontare la sua sorte, guadagnandosi l’appellativo “Il Leone di London Bridge”, mentre i terroristi infierivano su di lui colpendolo ovunque, e concedendo alla polizia il tempo necessario per arrivare in tempo e uccidere i tre, sorpresi ed increduli di una simile reazione. “Solo quando mi sono ritrovato nella macchina della polizia che mi scortava all’ospedale ho scoperto di essere tagliato completamente a pezzi”. Poco conto per chi tifa per la squadra più temuta d’Europa: 135 anni di storia e nessun trofeo mai vinto, una vita in Championship e nelle leghe minori del calcio inglese (solo due volte il Millwall ha giocato nella massima serie), eppure tutto il continente conosce i leoni di “The Isle of Dogs”, l’Isola de cani, la parte di Londra dove è nata la leggenda dei ragazzi del “The Den”, l’Inferno. Merito dei suoi tifosi che tra gli anni ‘70 e metà ‘90 hanno creato il delirio in tutta Inghilterra e in tutta Europa. Eppure nonostante le ferite e il gesto nobile, a Roy è stata respinta la richiesta di risarcimento danni come vittima del terrorismo. Motivo? Vari precedenti a carico dell’uomo che pesano come macigni sulla sua fedina penale tutto tranne che immacolata: un’aggressione in strada aggravata dall’odio razziale ed una violazione di un divieto di avvicinamento nei confronti della madre, che ha 80 anni. “Speravo che quel risarcimento mo aiutasse a tornare in piedi. Ho molti problemi economici e vivo a casa di un mio amico che mi ospita e mi concede il suo divano per dormire”. Storie di ordinaria follia dove a follia è di casa. Dove la paura vera la fa l’East London Derby, altro che tre miliziani scappati di casa. Affrontare gli Hammers è la vera sfida che lavora ti mette di fronte. Gente tosta. Come Gary Teeley, l’ostaggio inglese liberato il giorno di Pasqua del 2004 a Nassiriya, un mese nelle mani dei suoi sequestratori, che una volta liberato, per prima cosa ha chiamato sua madre per tranquillizzarla, e subito dopo sua moglie, ma non per chiederle come stavano lei e i suoi tre figli, ma come stava andando in campionato il West Ham. Senza timore. Senza paura, come solo chi ha affrontato quelli del Millwall fuori le strade del The Den oppure Upton Park conosce davvero..

Gli Shelby tifano Birmingham..

Mancano pochi giorni alla fine dell’anno 1925 quando Arthur Shelby, seduto insieme al fratello Thomas su di una sudicia spalletta di Small Heat, la loro Small Heat, inala un po’ della fetida, gelida, fuligginosa aria del sud di quella Inghilterra in piena via di sviluppo e sussurra quasi commosso “Aaah. Quanto mi mancava. Questo odore”. “L’odore di un cesso” risponde il glaciale Tommy. “Noo. Non so che cos’è” risponde Arthur come in estasi “Birmingham forse. O Small Heat. Questo odore. Questo odore ce lo riporta qui” esclama riferendosi all’altro fratello John, ucciso pochi giorni prima dalla mafia per conto del boss siculoamericano Luca Changretta. Gli Shelby sono dovuti tornare a casa. Nel loro quartiere. A Small Heat per ricompattarsi e poter tener testa ai loro nemici. Si erano trasferiti nei quartieri più a nord. Quelli più chic. Pieni di soldi e ambizioni. Eppure così freddi. Senza storia e emozioni. Riempiti di tutto ma pieni di niente. Già. Perché niente è come tornare a casa. Niente per loro sarà mai come Small Heat e la sua gente. La loro gente. Quella che nonostante tutto. La miseria. Le fabbriche in tumulto. I ricordi della Grande Guerra ancora così vivi. Le fumerie d’oppio. Quella poesia non scritta in versi ma in fatti. La merda di cavallo che riempie le strade di un sobborgo abbandonato da Cristo e la sua banda di impostori. Ogni singolo mattoncini rosso del cazzo così dannatamente uguale l’uno all’altro da essere praticamente impossibile trovare la strada di casa se cullati dal morbido wiskhy irlandese in quelle rigide notti inglesi. Niente. Niente potrà mai dividerli. Nonostante sia praticamente il 1926 e gli acerrimi nemici dell’Aston Villa, nati nel nord della città, un anno prima dei blues, nel 1874, sotto un lampione di Heathfield Road da quattro giocatori di cricket del Villa Cross Wesleyan Chapel, che cercavano qualcosa da fare durante l’inverno visto che in inverno a cricket non si gioca, ecco, nel 1926, nonostante i Villans abbiamo già vinto 6 dei loro 7 campionati totali e 6 delle loro 7 Fa Cup, mentre il Birmingham Football Clùb, chiamato così nel 1905 dopo che era nato nel 1875 con il nome di Small Heat Alliance, ha già più di 50 anni di storia ma ha guadagnato solo retrocessioni, promozioni e occasioni perse, neanche quello riesce a scalfire l’amore per una squadra. Per quella zona di Birmingham così viva e sfortunata. Sarà così per sempre. Si perché mente l’Aston Villa arriverà fino alle porte del paradiso vincendo la Coppa Campioni del 1982, e la successiva SuperCoppa Europea, i tifosi del City si toglieranno solo qualche minore e volatile soddisfazione, come quella intensissima del 1963 quando riescono a conquistare la Coppa di Lega proprio contro gli odiati Claret&Blue per 2-1 e riuscendo a rivincerla solo 48 anni dopo, nel 2011, sempre per 2-1, ma questa volta a discapito dell’Arsenal. Poi stop. Nient’altro, se non un’anomia esistenza vissuta a galleggiare tra metà classifica e umiliazioni cittadine. Eppure questo a quelli di Small Heat non è mai interessato. Si perché se fosse interessato qualcosa, quelli del Birmingham Fc, nel 1906, non si sarebbero trasferiti così in fretta e furia nel loro nuovo stadio, il St Andrew’s, lo stadio attuale, concepito ai tempi per poter accogliere 75.000 persone, capienza poi ridotta fino all’attuale 30.009, vista l’incredibile richiesta da parte del pubblico. Così follemente innamorati di quella creatura. La loro creatura. A loro non importava niente dell’Aston Villa e di sapere che per loro, quelli in maglia celeste e amaranto, il derby con il Birmingham è quasi una fastidiosa seccatura, perché così troppo superiori per sporcarsi le mani e le scarpette con quelli di Small Heat e le loro sudice strade. Gli zingari. Così disgustati dal primo campo dei rivali, proprio a Small Heat, in Muntz Street, quando andò in scena il primo storico derby di Birmingham. Era il 27 settembre del 1879 e i blues vinsero per 1-0, mentre Thomas Shelby navigava ancora tra le palle di suo padre e quelli dei Villans erano invece troppo impegnati a definire il campo, non proprio il classico bellissimo manto erboso in stile british, “adatto solo per una miniera”. Ma questo, a quelli di Small Heat, quelli col panciotto e il capellino con la visiera, quelli perseguitati dal corrotto Chester Campbell, quelli pieni di polvere e carbone, questo a loro non interessava. A loro bastava Small Heat. Le loro strade. La loro merda. E tenere in alto l’orgoglio di un popolo. Il loro. Ecco perché la leggenda narra che furono proprio i Peaky a rubare l’11 settembre del 1895 la seconda Fa Cup vinta dall’Aston Villa, per 1-0 contro il WBA, e esposta con superiorità nella vetrina di un negozio sportivo del tempo, il William Shillcock. Il trofeo non verrà mai ritrovato, tanto che ancora oggi i Villans espongono al suo posto un duplicato. Ma almeno era salvo l’onore. Chi tifava blues non poteva accettare. Perché il calcio va oltre la vita. É qualcosa di mistico anche se non hai un soldo e dovresti preoccuparti di ben altre cose. Ma é una delle poche cose che ti fa sentire vivo. Perché come dice Thomas Shelby, tutto “è relativo. D’altronde la religione altro non è che una stupida risposta ad una stupida domanda”. Così come il calcio, specialmente lá, nella terra che era dei fottutissimi Peaky Blinders, così dannatamente presuntuosi da credersi i sostituti dei libri di storia, perché a loro, la storia appunto, piace più farla che studiarla. Niente sarà mai come il Birmingham. Come Small Heat. Anche d’estate quando c’è chi pur tifando Aston Villa preferisce il cricket. Non lá. Non fra quelle sigarette fumate, consumate come se fossero noccioline, tra quei maledetti mattoncini rossi tirati su a malta e fatica così dannatamente tutti uguali tra loro, quando niente sembra capace di scaldare i cuori a parte il wiskhy, lo sporco Birmingham e l’odore di casa, anche e sopratutto nel bel mezzo di un grigio gelido giorno del pieno inverno..

Un colpo al cuore..

Un colpo al cuore. Al centro di Edimburgo c’è una cattedrale. È maestosa ed imponente. È il principale luogo di culto di tutta la Scozia. Il loro Duomo di Milano, o San Pietro, per intenderci. È intitolata a Sant’Egidio, o se preferite fare i fighi usando parole straniere, un pò come quelli che chiamano “mise en place” quella che a me sembra una semplicissima apparecchiatura da tavola, ecco allora sappiate che la chiesa è dedicata a St. Giles. Fate voi. Non ha importanza. Non molta. L’importante magari è sapere che, uscendo dalla sua porta, quasi proprio di fronte all’entrata, spostato leggermente ad ovest, potete trovare per terra un bellissimo mosaico raffigurante un cuore. Si chiama Heart of Midlothian, dal nome della regione in cui si trova Edimburgo, e la leggenda vuole che sia buon auspicio sputarci sopra. Già! Avete capito bene. Si. Ecco mentre in tutto il resto del mondo è severamente vietato scartavetrare i propri polmoni e espettorare il proprio muco bronchiale indirizzandolo verso il suolo terreno, pena una multa o magari una bella denuncia, o almeno come minimo una sacrosanta lavata di capo, qua è concesso. Diciamo tollerato. È una specie di tradizione. Consuetudine. Gia. Eppure non è sempre stato così. Anzi. All’inizio della storia, all’inizio della leggenda, lo sputo su questo meraviglioso mosaico incastonato nel pavé da fantastici mattoncini rossi, non era proprio un gesto di buon auspicio. No. Anzi. Significava disprezzo, in quanto, proprio in quel punto, sorgeva la vecchia e famigerata prigione di Old Tolbooth, e gli edimburghesi, per esorcizzare quella paura del tutto umana nei confronti della reclusione, bagnavano con la loro calda, sporca saliva infetta quel luogo simbolico. Uno sputo. Un mondo dietro. Ma ad Edimburgo, se cercate bene, tra i turisti rincoglioniti con i telefonini in mano in cerca di una foto da portare a casa e sfoggiare con orgoglio e quell’inconfondibile odore di fish&chips che avvolge tutta la città, ecco, beh, c’è chi ancora che sopra quel cuore sputa in segno non in segno di amicizia. Ma di disprezzo. Schifo. Odio. Già. Basta saper cercare. Scrutare. Osservare. Si perché questa città, a differenza di Glesga, dove la questione è più religiosa che sociale, qua nella capitale della Scozia, la cosa è proprio opposta. Qua la differenza tra Hibs e Jamboo non la fa tanto il fatto di essere protestanti o meno, cattolici o no. Se crediate che Dio preferisca i servigi del Papa oppure i perenni occhi lucidi del reverendo Eric Camden. La questione è radicata nel divario che si può trovare nel tessuto sociale che permea la città: se sei un fighetto del cazzo, snob, con la puzzasottoilnaso e magari porti pure i risvoltini, sei un lealista di merda e credi che la Regina sia l’unica ancora di salvezza in questa misera vita, allora tifi Hearts. Se invece vivi in una qualche topaia agghindata a festa a casa popolare e assegnatati dal governo, quel governo che non hai votato e nel quale ormai non credi più, e come minimo hai in famiglia o conosci almeno tre tossici e due malati di AIDS, bèh, allora sei dei nostri. Sei un Hibs. Punto. Non c’è molto da sbagliarsi. E Irvine Welsh in tutta questa semplicità è riuscito in maniera superba a descrivere questa situazione quasi scontata ma ben tangibile. In ogni libro sempre di più. Ed ecco che allora prende i suoi personaggi più orribili, bastardi e vigliacchi con i loro difetti più dispregiativi e mostruosi possibili e li modella sopra quelli avversari tanto odiati. Ecco allora che l’unico protagonista dei suoi romanzi che tifa “maroons” sia il poliziotto Bruce “Robbo” Robertson, in Lercio, amante della cocaina , fedigrafia, prostitute, magari anche minorenni, whisky, heavy metal, cibo grasso e indiano e film pornografici, abile truffatore, umiliatore, stupratore e traditore. Il simbo del male assoluto, il lercio, l’incarnazione massima della ferocia umana; tuttavia agli occhi suoi ed altrui è un vincente, “il più in gamba di tutti”. Classico di un jambo, credersi il centro del mondo mentre invece il mondo non sa neanche che esisti. Ecco allora che il compagno onirico della caccia al Marabù di Roy Strang, in Tolleranza Zero, Sandy Jamieson, si scopre alla fine del libro essere in realtà l’odiato calciatore degli Hearts Jimmy Sandison, e che sarà proprio lui a sparare al protagonista mettendo fine all’agonia del ragazzo sia nella realtà che nel coma volontario dal quale non si risveglierà mai. In Godetevi la Corsa, Jonty MacKay è il ragazzo dall’intelligenza subnormale che tifa per quelli di Tynecastle ed è al centro di casi di incesto, omosessualità e bombe molotov. Ecco perché allora Francis Begbie non potrà mai essere uno di loro. Perché combatte una battaglia contro le ingiustizie della vita di chi è nato dalla parte sbagliata della barricata. A Leith. Dove splende il sole e il suo canto mette i brividi. “Sunshine on Leith” cantano gli Hibs non appena ne hanno l’opportunità. Come nei minuti di quella finale di Coppa di Scozia del 2012 attesa per quasi 100 anni è terminata 5-1 per gli odiati rivali. Non un dramma per chi del perdere, dell’essere “gli altri” ha fatto il proprio marchio di fabbrica. La propria esistenza. Quando però, quelle poche volte capita di vincere, rimane dentro per sempre. Come la finale sempre di Coppa del 2016 contro i Rangers terminata 3-2 al 92’’ grazie al gol di Gray, che riportò l’Hibernian a vincere il trofeo dopo qualcosa come 114 anni. Vale la pena attendere se poi arrivano momenti così. Poca importa. L’importante è sapere sempre da che parte stare. Ed essere consapevoli della propria scelta. Che da una parte o dall’altra del fiume può cambiare tutto. Pure il significato di uno sputo rivolto verso terra. L’importante poi è alzare fieri lo sguardo e guardare il sole, consapevoli del fatto che il sole brillerà sempre su quella fantastica orrenda terra che risponde al nome di Leith.

La passione non va mai in vacanza: la storia del club che tifano i carcerati di Buenos Aires..

“Vamos Carajo! Vamos Chicos”.
È domenica mattina. Presto. E la domenica mattina, si sa, è abitudine dormire un po’ di più, recuperando da cui ritmi frenetici che la settimana ci impone come soldatini di piombo. Ma non qua. Qua le urla si stagliano già alte nel cielo di prima mattina, quel cielo che si può vedere solo a strisce, come se fosse diviso in tanti piccoli pezzi verticali. Non perché indossi qualche maglia da calcio, il cielo, per carità. Solo e soltanto perché le sbarre impediscono un panorama diciamo normale. Consono. Quello che per quasi tutti noi è la normalità. Buenos Aires, Baires per gli amici. Barrio di Villa Devoto, che prende il nome, tanto per cambiare, dall’immigrato ligure Antonio Devoto. Qua, in questo che una volta era considerato “il giardino della capitale” per l’altissima concentrazione di alberi, più che in qualunque altro quartiere della città, caratteristica che ha dovuto soccombere ahimè sotto i colpi bassi del progresso e del cemento, qua si trova l’omonimo carcere di Villa Devoto, penitenziario dove a metà anni settanta veniva deportati, perché è priorio questo il termine, deportati, tutti gli oppositori politici di quel regime che nel 1976 prese il potere con un colpo di Stato destituendo la presidentessa di allora, la mitica Isabel Martinez de Perón, e a cui faceva capo Jorge Rafael Videla, un uomo fatto con la stessa pasta, se così vogliamo chiamarla, con cui era fatto il forse più famoso Augusto Pinochet, gente che agli oppositori più sovversivi, ai dissidenti politici un po’ più duri a piegarsi alle loro simpatiche dittature, riservavano i famosi “voli della morte”: venivano caricato su degli aerei e degli elicotteri, drogati con quello che capitava sul momento e vigliaccamente gettati vivi nel bel mezzo dell’Oceano da altezze imponenti. I tristemente famosi /desaparecidos/. Ecco qua a Villa Devoto i tempi sono cambiati così come i suoi galeotti. Gli oppositori del regime hanno lasciato spazio a spacciatori, tagliagole, padri di famiglia in difficoltà e rapinatori. Gente che ha tutta la settimana per dormire, pensare e risposarsi. Ecco perché allora che la domenica mattina è possibile alzarsi presto. Già. Perché gioca lui: el Club Atlético General Lamadrid, società fondata l’11 maggio 1950 anche se l’idea di creare un club ronzava nella testa dei suoi fondatori già dal 1939. Lo stesso giorno esatto della fondazione fu giocata la prima partita, un’amichevole contro quelli che diventeranno i classici rivali del barrio, il Kimberley AC, squadra anch’essa di Villa Devoto fondata, neanche a dirlo da immigrati italiani, nel lontano 1906. Curiosità tipica argentina: due dei fondatori del Kimberley, i fratelli Pianaroli, originari della Liguria, solo l’anno prima, nel 1905, fondarono un’altra società, lo storico Club Atletico Platense.
Ma come tutte le storie tipiche provenienti da quella fantastica terra che è l’Arghentina, per dirla alla sudamericana, anche la fondazione del General Lamadrid ha quel meraviglio velo di poesia romanzata e decantata come un libro di Osvaldo Soriano. La leggenda infatti narra che nonostante la prima partita già giocata ci volle qualche giorno per decidere il nome del club, dato che i fondatori non riuscivano a trovarsi d’accordo con il titolo da dare alla squadra. Qualcuno propose così “Lamadrid” per onorare un signore iberico proveniente dalla capitale spagnola che aveva un magazzino dal quale commercializzava birra proprio all’angolo delle strade dove sorgeva il primo, primordiale, campo da calcio, tra calle Allende e calle Tinagosta. Allora uno dei soci, Enrique Sexto, al quale verrà proprio intitolato lo stadio attuale, propose di aggiungere a Lamadrid la parola General, in onore di un guerriero dell’indipendenza argentina vissuto a metà del 1800. Nasceva così uno dei club più pittoreschi e unici del panorama sulamericano. Si perché se da lì a poco la storia è pronta a consegnarti il soprannome di “los carceleros”, i carcerati, qualcosa di speciale, è innegabile, devi pur averlo. E rieccoci all’inizio della storia. Di quelle domeniche mattine dove la sveglia suona presto perché c’è da preparare la coreografia per quando entrerà in campo“El General”. Già. Si perché le finestre del lato est del penitenziario di Villa Devoto affacciano esattamente sull’Estadio del “Lama”. Una poesia all’inferno, direbbe qualcuno. Tutto ebbe inizio nel 1969 quando tale Mario Oriente, detto “El Loco”, nato nel 1926 ed il più giovane di dodici fratelli, fu arrestato per aver fabbricato wiskhy clandestinamente in una distilleria adibita nella cantina di casa e per aver picchiato un poliziotto durante la cattura. Fu così portato nel carcere di Devoto e ben presto si affezionò a quella squadra che una domenica si ed una no allietava quella sua attesa tediosa ed infinita verso la libertà, diventandone ben presto uno dei primi tifosi. Un fanatico di quella maglia blu scura con banda bianca ispirata alla casacca più popolare dei militari argentini, i Granaderos, uomini al fianco proprio del Generale Gregorio Araoz de Lamadrid durante la battaglia d’indipendenza dal nemico spagnolo. Una volta uscito dal carcere qualche anno, Oriente divenne socio del club e tutto fare dello stadio: pitturava dove c’era da pitturare, cambiava le lampadine dei fari di illuminazione, tagliava l’erba e divenne infine membro del Consiglio di Amministrazione, scrivendo pure l’inno della squadra. È così rimasta quella tradizione che vuole affacciati alle loro finestre i più fortunati tra gli sfortunati ogni domenica che il General gioca in casa. C’è chi giura che tanti in quel carcere la settimana pratichino una vita senza sbavature e al limite del caritatevole pur di poter chiedere nel fine settimana di poter passare un paio d’ore nelle celle dell’est ad accogliere i propri beniamini con il lancio di carte strappate e fogli di giornale ridotti in brandelli, cavalcioni tra le sbarre e il vuoto.. Ed è così che tifosi del Boca, del River o magari del Racing si ritrovano sotto la stessa bandiera, sotto lo stesso tetto scalcinato, uniti per necessità, per amicizia forzata e passione mentre invece lá fuori si sarebbero odiati, tifando quella maglia che sempre più spesso diventa la seconda squadra di chi forse non avrà una seconda vita. Quel club che il giorno dopo il golpe del ‘76 vide atterrare sul proprio campo da gioco un elicottero pieno zeppo di oppositori politici da carcerare al più presto. Un club che ha cambiato il suo compleanno al 2 aprile, anziché l’11 maggio, in ricordo della guerra dello Isole Falkland, o come dicono da queste parti “Las Malvinas”. Meglio. Molto meglio per l’unico club al mondo che potrà sempre contare sul supporto dei propri tifosi, perché il crimine non va mai in vacanza, esattamente come la passione, che non potrà mai, mai finire dietro una sbarra o gettata da un aereo nel bel mezzo dell’Oceano.