Non segna sempre lui: la storia dell’Ibis e del suo attaccante..

Non segna sempre lui: la storia dell’Ibis e del suo centravanti
http://t.co/5fnY98TDHI

Se ti chiami Mauro Shampoo ed il destino per te ha deciso che come mestiere devi fare il parrucchiere, non puoi far altro che prendertela con la vita e pensare essa ti ha sicuramente voluto prendere un po’ in giro, giocando e scherzando con i tuoi sentimenti e con le tue emozioni, lasciandoti lá, solo, ad essere deriso da tutti.
Se poi sei nato in Brasile e fin da piccolo sogni di diventare un campione del calcio, un mago che con quella pelota tra i piedi sa fare e può fare ciò che vuole, ed invece sei protagonista di una delle storie più tragicomiche che la storia del calcio ricordi, le soluzioni allora, in quel preciso momento in cui la tua esistenza presenta un conto che non ti meriti, sono solamente due: puoi scappare, iniziare a correre e percorrere chilometri e chilometri senza mai fermarti ne voltarti indietro, ed andare lontano, a vivere chissà dove, ma non lá, non più, e costruirti una nuova vita, un nuovo nome, un nuovo mestiere e magari anche un nuovo sogno, ma non certo più quello di fare il calciatore, perché i piedi purtroppo non puoi cambiarli neanche a correre lontano, e rimangano quelli di prima; oppure rimani lá, a Recife, la tua città, quella che ami, dove sei nato e dove tutti ti conoscano come Mauro Shampoo, e fare di quelle debolezze che la vita ti ha offerto su di un piatto di letame, la tua forza, la tua virtù, non perdendo mai quel bellissimo sorriso che ti contraddistingue, e riuscendo a trasformare quel letame in oro purissimo come neanche Re Mida sapeva fare.
Ecco cosa puoi fare.
Ed ecco quel che fece il più incredibile centravanti che il Brasile abbia mai avuto.
Ma la sua storia, quella del signor Mauro Shampoo da Recife, quel signore buffo con i capelli corvini e ricci simili ad Higuita, ed una faccia che ricorda un giovanissimo Joe Pesci in ‘Quei bravi ragazzi’, quella vita lá, inevitabilmente si lega e si intreccia indelebilmente alla squadra più incredibile della storia del calcio.
Una squadra che sembra impossibile da trovare su campi di calcio reali, ma al massimo in qualche libro o fumetto.
Ed invece..
Ma andiamo con ordine.
Stato di Pernambuco.
Brasile centro-orientale.
Questo stato con poco più di otto milioni di abitanti si affaccia sull’Oceano Atlantico, e la sua capitale è Recife.
Città importante per il calcio, Recife.
Qui infatti hanno sede squadre come lo “Sport do Club Recife”, squadra che addirrittura vinse un Brasileirão nel 1984, od il “Clube Náutico Capibaribe”, che non ha mai vinto niente di che a livello nazionale, ma nel suo stato, e comunque nel Brasile in generale, è una squadra conosciuta e di tuttto rispetto. Ci sarebbe poi anche il Santa Cruz, la terza squadra della città, una nobile decaduta che adesso arranca nelle serie minori. Non lo è più adesso, ma è stata conunque una signora squadra in passato.
Insomma, a Recife non manca certo la cultura del calcio, e la sua fama per il futbol in tutto il Brasile è da tenere bene in considerazione.
Però… C’è un però.
Nei sobborghi della città, nella parte più povera ed umile di Recife, c’è una squadra che certo, tanto un vanto per una cittá, non può esserlo.
Una squadra fantastica ed orribile allo stesso tempo. Bellissima ed inguardabile nello stesso momento.
Questa squadra è l”Ibis Sport Club’. Stiamo parlando della squadra più pazza, assurda e strampalata che il mondo ricordi, la più incredibile formazione che questo sport abbia mai visto da quando quei benedetti marinai inglesi iniziarono ad esportare e giocare a calcio in tutto il mondo.
L’Ibis, che storia!
Fondata nel 1938, l’Ibis non ha mai vinto niente.
Niente di niente. E non stiamo parlando solo di trofei. Se non avete mai sentito parlare di questa squadra, non sapete cosa vi siete persi fino adesso.
Facile saper tutto sul Real Madrid. Facile ricordarsi i gol stagionali di Messi o gli scudetti totali vinti da una leggenda come Ryan Giggs. Facile giá. Ma il calcio è fatto, purtroppo o per fortuna, da forti che, inevitabilmente, per essere tali, hanno bisogno di deboli sui quali prevaricare e vincere.
Ed ecco che qui entra in campo il nostro Ibis. Questa squadra rossonera sperduta sulle coste del Brasile, tra tanga e piedi scalzi, ha, che lo vogliate o no, scritto un pezzo di storia del calcio.
Per lei si è addirittura scomodato nient’altro che il ‘Guinness World Record’, che, senza tanti giri di parola, l’ha proclamata ‘La peggior squadra del mondo’.
E vi giuro che non stiamo scherzando.
No. È tutto vero.
Anzi.
Come dargli torto.
L’Ibis, solo lontana parente dello stupendo volatile egiziano da cui prende il nome, dal 1980 al 1984 è riuscita nell’impresa storica, quasi impareggiabile neanche a volerlo, ad essere onesti, di non riuscir a vincer neanche una partita.
Una che sia una. Una sola. Una misera partita. Anche inutile magari. No. Tre anni e undici mesi di digiuno. Non una vittoria.
Sembra incredibile, ma vi assicuriamo che è la verità.
Addirittura in quel magnifico anno che fu il 1983, la nostra squadra, perché diciamo la veritá, una squadra così non puoi che sentirla anche un po’ tua con la sua assurdità e tenerezza, riuscì nell’impresa formidabile di perdere ventitré gare su ventitré.
Pura poesia. Pura magia.
L’Ibis come un Real Madrid alla rovescia.
Anche questa è musica. Anche questa è poesia o filosofia calcistica. Anche questo è calcio ed anche questi sono record. Stupende pagine di storia che l’Ibis stava scrivendo solo per noi, solo per l’immortalità.
Del resto, nei mitici anni ottanta e novanta, non erano considerati maghi coloro che facevano zero alla schedina come coloro che inevece facevano tredici?
Eccola qua la nostra schedina senza neanche una partita azzeccata: l’Ibis.
L’unica squadra al mondo che non ha mai spiccato il volo, neanche uno solo, un misero volo che sia durato giusto il tempo di una vittoria. Magari per i più sembra quasi superfluo, inutile, vincere una partita in più od in meno in quattro lunghi anni, ma non per l’Ibis, la squadra che perde sempre e che tanto fa ridere e sorridere l’intero Brasile. E tanta tenerezza inevitabilmente infonde nei cuori.
Nella terra del calcio, dove tutto si muove a ritmo di samba e palleggi, qua, nella terra dei pentacampioni, nella terra che fu di Leonidas, Pelé e Ronaldo, la terra che è del Palmeiras, del Flamengo e del Corinthians, proprio qua, dove il pallone è fatto in poltiglia e cosparso nell’aria così che tutti possano respirarlo, proprio qua, gli dei del calcio, depositarono una perla talmente rara che non esiste da nessun altra parte: l’Ibis è una stella da sfoggiare con orgoglio. E la squadra di Recife inizia pian piano a vivere e convivere con questa simpatica malattia contraria a qualunque tipo di vittoria, tanto che sul loro petto, i giocatori del glorioso Ibis, si sono visto cucire, proprio sotto lo stemma, l’emblematica frase che non lascia posto a dubbi ‘Pior Time Du Mindo’, appunto ‘La peggior squadra del mondo’.
Ed è proprio adesso che il destino della compagine più strampalata e sfigata del mondo si intreccia con quell’uomo di inizio racconto. Ve lo ricordate? Si dai. Quello con i capelli neri alla Higuita ed il cognome buffo? Quello che faceva sia il barbiere che il centravanti? Si. Proprio lui. Mauro Shampoo. Un mito. Un’icona del calcio.
Tutti in piedi signore e signori.
Nasce povero, come molti coetanei.
Scalzo, con in piedi neri ed un sogno in testa che in Brasile coltivano praticamente tutti i bambini: diventare un calciatore, così da scappare da quella povertà. Di quelli forti. Di quelli che fanno innamorare e sognare l’intero Brasile.
Mauro intanto, mentre sogna, per campare ed aiutare la sua famiglia fa il lustrascarpe in spiaggia, e con quei pochi soldi che guadagna riesce pure a racimolare qualcosa per pagarsi il bus ed andare ad allenarsi.
Non è bravo Mauro, per la veiritá. Anzi. È molto ma molto scarso. Scarsissimo. Però la passione lo muove, lo contagia ed un giorno lo premia: riesce a diventare un giocatore dell’Ibis, una squadra che non ha mai badato molto alla tecnica. Ed infatti Shampoo diventa il suo centravanti.
Ma la paga della serie C del campionato pernanbucano è quella che è, così Mauro gioca, non segna ed impara anche un nuovo mestiere: diventa parrucchiere. Si dice che con le forbici in mano Mauro sia un vero e proprio fenomeno.
Ma nel sul cuore c’è solo l’Ibis in realtà: da quel giorno nascerà, di li a poco, una delle storie d’amore più pazze e tragicomiche che il calcio abbia anche solo immaginato una volta. Una sola.
Saranno dieci gli anni in cui Shampoo servirà ed onorerà la squadra di Recife. Ogni domenica. Sempre.
Ed in questi dieci anni riuscirà solo, o addirittura, dipende ovviamente dai punti di vista, a segnare un gol. Uno solo.
Non due. Non sia mai.
In dieci stagioni, il nostro eroe dai capelli folti, la insacca una misera ma bellissima volta. Oltretutto in uno stadio praticamente deserto, mentre la sua squadra, quell’Ibis meraviglioso, stava perdendo 8 a 0.
Avete capito bene.
Mauro Shampoo segnó un gol che chiamare inutile è, di molto, un complimento. Un’ 8 a 1 che non lavava via di certo l’onta della vergogna e della mediocrità più assoluta che avvolgeva quella partita e quella squadra. Non sappiamo onestamente che tipo di gol fu. Sicuramente fu un passaggio ciabattato o un gol a porta vuota su respinta corta del portiere.
Ma a Mauro questo non importava assolutamente niente. Se ne frega. E quei pochissimi presenti allo stadio quel giorno, giurano di non avere visto mai esultare così per un gol un uomo. Neanche Tardelli un anno prima in finale mondiale. No mai. Mauro Shampoo liberó la sua gioia per quel gol che non arrivava mai, come nessuno avrebbe mai pensato o solo sognato di esultare.
Mauro Shampoo, per una volta, fece arrossire anche i più grandi bomber di razza. L’aveva messa. Era lui il re di quella domenica. Solo lui. Mauro Shampoo.
Gli anni intanto passano, e l’Ibis, dopo il passo falso di quella vittoria nel 1984, torna a perdere ed incassare sonore sconfitte.
Fino al 1999, quando la squadra riesce nell’impresa storica di vincere ben sette partite nella stessa stagione.
Un trionfo penserete. Chissà quale fantastica parata per le vie di Recife immaginate, vero!?
No.
Niente di tuto questo. Fu il contrario. I tifosi non gradirono affatto quell’exploit positivo della loro squadra.
L’Ibis era nata per perdere e così doveva continuare. Non si poteva snaturare le radici della squadra. È o non è “La peggior squadra del mondo”?
I tifosi insorgano e chiedono a gran voce il ritorno in campo del loro idolo, l’unico uomo che sapeva perdere come a nessuno è mai riuscito, quel Mauro Shampoo che nel frattempo ha cinquant’anni ed ha aperto una bottega da barbiere e conduce una vita tranquilla nelle sue quattro mura completamente tappezzate di foto e gagliardetti del suo grande ed immenso amore, l’Ibis.
Mauro non tornerà, anche se a malincuore, e rimarrà lá nella sua bottega, meta di pellegrinaggio di tifosi e fan, a tagliare capelli, a tifare Ibis ogni domenica ed a rispondere così alle telefonate che gli arrivano “Mauro Shampoo, calciatore, parrucchiere e uomo.. per servirla”.
In Brasile diventa una star, tanto che le tv se lo contendono ed i registi gli dedicano addirittura cortometraggi. Lui, peró, non cambierà mai. Rimarrà sempre fedele alla sua Recife ed alla sua bottega. Ed ovviamente anche al suo fantastico Ibis.
Se andate in giro per Recife e chiedete chi è Mauro Shampoo, potrete trovare qualcuno che parlando di lui si commuove, ed i suoi occhi diventano lucidi, e questo qualcuno non ci metterà molto a dirvi, dall’alto di cosa sinceramente non sappiamo, che Mauro Shampoo è stato solo un giocatore sfortunato, un genio incompreso ed un fuoriclasse mancato, e con lui in campo nei famosi mondiali di Spagna 1982, forse il Brasile sarebbe riuscito a vincere quel tanto agognato Mondiale. Perché quel Brasile è stato forse il più forte di tutti i tempi, e con Mauro Shampoo in campo sarebbe diventato stratosferico. Inarrestabile. Romantico e poetico.
Altri invece, più sobri ed onesti nella loro anima, vi diranno che con lui in campo il Brasile non avrebbe vinto ugualmente un bel niente, neanche quel maledetto mondiale, ma almeno avrebbe fatto divertire ed intenerire l’intero mondo.
Mauro Shampoo, avrebbe addolcito gli animi di tutti.
Come una mascotte. Come uno spot per il calcio.
E perché non credergli.
Immaginatevi la scena:
Paolo Rossi ha appena segnato il gol del 3-2. Il Brasile deve reagire. Tele Santana, ct brasiliano dell’epoca, toglie Eder, o Socrates se preferite, ed inserisce lui, ‘O magico’, ‘O imperador do Trópico’, Mauro Shampoo da Recife. Stella dell’Ibis. Cappelli crespi e tanta poesia nei piedi. La partita è agli sgoccioli. Zico riconquista la palla e si invola verso la porta difesa da Dino Zoff. Ne salta uno, poi un altro. La appoggia a Falcao che di prima la serve a Shampoo al limite dell’aerea. Ed è proprio adesso che entra in gioco il nostro eroe: Mauro danza, Bergomi lo attende. Shampoo temporeggia, la tocca più volte perché non ha una grandissima sensibilità in quei piedi rozzi, arretra leggermente con la suola. Ad un certo punto Mauro ha uno scatto, e prova un doppio passo a zero chilometri orari, quasi a rallentatore. Ma proprio in quel momento tocca con il suo piede l’altra gamba, quella d’appoggio. La punta delle dita agguanta il polpaccio. Mauro cade come una pera cotta sul pallone con il fianco sinistro e poi a terra. Con la faccia nell’erba. Si vedono solo i capelli ed una maglietta gialla ad oggi giorno incredibilmente vintage. Se ne sta lá intontito per due secondi buoni con l’erba in bocca. L’intero stadio, vincitori e vinti, scoppiano in una risata collettiva, liberatoria, ed in quel momento nessuno si ricorda che c’è lá una semifinale di Coppa del Mondo. Chiunque ride e si diverte mentre Bergomi riconquista il pallone senza problemi e se ne va via tranquillo.
Mauro Shampoo non fa una piega. Si rialza e inizia a rincorrere, con un umiltá mai vista prima in un mondiale, il suo avversario. Senza fare una piega. Perché in fondo che c’è da ridere? Solo chi non gioca a calcio non potrà mai cadere.
Anzi, non c’è proprio niente da ridere se lo volete proprio sapere. Perché alla fine, secondo noi, il calcio lo deve praticare chi lo ama. Non i più forti. Ma chi ne è perdutamente innamorato. Il gioco del futbol è di coloro che lo sentano dentro, e non di chi si, magari lo sa anche giocare, ma ne fa solo un fottuto mestiere, senza provare niente, senza quel pizzico di magia che ci vuole per rendere unico questo sport meraviglioso. Senza scaldare i cuori. Non rovinateci il calcio per favore, miseri approfittatori.
È un pó come quel pizzaiolo che fa la pizza più buona del mondo ma ne odia il suo sapore perché odia la pizza stessa.
Alla fine tutto perdere il suo fascino.
Il suo romanticismo.
Non puó esistere. E così non può esistere il calcio senza chi lo ama, lo suda e lo trasuda. I colpi di tacco o le rovesciate, lasciateli a casa se non son fatti col cuore. Noi ci teniamo chi il calcio lo adora. Chi lo venera. Chi lo prega ogni santa e maledetta sera prima di addormentarsi. Ma magari non è tutta quella bravura nel giocarlo.
Che importa.
Viva la passione per un 8 a 1 senza storia festeggiato come mai nessuno.
Viva il calcio e chi lo ama.
E vi assicuriamo che, al mondo e nella storia, poche persone hanno amato il calcio come lo ha amato il grande Mauro Shampoo.

Quel bianco candido..

Nel 1882 a Londra, nei sobborghi di Londra per l’esattezza, nasceva una squadra di nome “Corinthians Fc”, che sotto un monito “men of fashion e pleasure”, si accingeva a cambiare il mondo.
Ebbe vita una società di veri e propri gentiluomini del calcio, dei dandy del pallone, per parlare con termini tanto in voga in questo periodo.
I suoi giocatori furono indottrinati con un credo ben preciso, quello secondo il quale non avrebbero mai giocato per lucro, per il vile e sporco danaro, ma solo per il puro piacere del gioco e per l’etica, solo per il gusto stesso del calcio e per la morale che vi era dietro.
L’atto ufficiale imponeva loro di giocare sempre e solo in abito bianco, puro ed immacolato, e vietava l’iscrizione della squadra a qualsiasi competizione ufficiale. Amavano il fair-play e odiavano i calci di rigori, ritenuti un modo volgare di segnare. I suoi giocatori diventarono ben presto titolari inamovibili della nazionale inglese.
Solo nel 1900 giocarono la prima partita ufficiale, ma solo perché era per beneficenza: sconfissero l’Aston Villa, neo campione della Football League, per 2-1 ed alzarono la Sheriff of London Shield (che negli anni avvenire perse il suo lato benefico e diventò poi l’attuale Community Shield).
Nel 1904 giocarono contro il Manchester United. Il Corinthians schiacciò letteralmente i ‘Red Devils’ con un devastante 11-3. Ancora oggi, quella, risulta la sconfitta più ampia mai subita dallo United.
Nei primi anni del novecento il Corinthians non era una squadra. Non era una società. Era un’icona. Fecero varie tournée in giro per il mondo e dei brasiliani decisero di chiamare la loro squadra con lo stesso identico nome, in segno di ammirazione. Un’istituzione, tanto che, una piccola compagine spagnola, nata proprio da pochissimo tempo, il 6 marzo del 1902 per l’esattezza, decise di indossare quella candida maglia bianca come omaggio a quella formazione inglese sensazionale.
Quella piccola squadra era il ‘Madrid CF’, che ben presto diventerà ‘Real Madrid’.
Mentre il Corinthians andava lentamente perdendosi nelle pieghe della storia, il Real si accingeva a scriverla.
Il loro primo allenatore fu un inglese, tanto per cambiare, tale Arthur Johnson, città natale ignota.
In quasi 114 anni di storia, nessun francese si era mai seduto sulla sua gloriosa panchina.
Se proprio doveva esserci un primo, non poteva che essere lui, sua maestà Zinedine Zidane..

Il ragazzo molto più forte di Carlos Tevez

Carlos Alberto Martínez Tévez si ferma di colpo e decide di non andare. Non ci va e basta. Anche se ha vinto 4 campioni argentini e una Copa Libertadores, è come se delle volte nella sua testa il tempo si fermasse e tornasse indietro fino ai tempi di Fuerte Apache con quell’inconfondibile odore di marmellata di fichi al mattino mischiato al profumo della brace usata per l’asado lasciata spengere da qualcuno la sera prima mentre qualcun altro, in un altro cortile li vicino nella Ciudadela, già di buon mattino, è impegnato in un ben altro falò, fatto di gomme d’auto, vecchi giornali che parlano della dittatura dei generali e qualche pistola che ha appena ucciso fatta sparire in fretta e furia. Carlitos non ci va e basta. È ancora troppo fresco il ricordo per andarci. Anche se ormai sono passati vent’anni e lui non è più “El Manchado”, il maculato, per via di quella sua pelle ghepardata sotto il mento molto simile al manto di una razza suima andalusa chiamata appunto “Manchado de Jabugo”, mentre adesso è “L’hombre del pueblo”, “el Dios de la Bombonera”, come solo Riquelme e Maradona prima di lui. È l’uomo del “Gallinazo”, di quella storica esultanza al Monumental imitando il verso di una gallina isterica tanto cara a quei rivali mitologici ribollenti di rabbia sugli spalti perché hanno appena visto scappare quel treno per la finale della coppa più importante del continente. Sono vent’anni che Carlos si da la stessa risposta alla stessa domanda, forse perché anche nella testa, la lingua argentina, quello spagnolo romanzato, quasi cantato, così meravigliosa all’orecchio con quella cadenza unica da sembrare poetica pure se ti stanno raccontando come cambiare il filtro dell’olio del motore, non riesce proprio a non raccontare favole. “Cosa sarebbe potuto essere?”. Già. Se lo chiedono un po’ tutti lá, lamento tutti quelli che l’hanno visto giocare. Ma non Carlos. No. Stavolta lui non c’entra. Si perché se lo chiedono tutti quelli che hanno visto giocare Darìo Coronel, anche se per poco, pochissimo tempo, visto che la sua vita è durata soltanto diciassette anni. Dario è colui che nella serie tv sulla vita di Tevez è il suo migliore amico ed chiamato Danilo Sanchez, l’”uruguagio”, anche se in verità era soprannominato “Cabañas” oppure “El paraguagio”, per via del fatto che sua madre, che lo ha abbandonato da piccolo, fosse veramente paraguaiana e per quella faccia da indio con quella somiglianza quasi maniacale a Roberto Cabañas, attaccante del Boca dell’epoca anch’esso proveniente dal Paraguay. Chi l’ha visto giocare giura che non ci sia mai stato paragone. Dario era di un’altra categoria. Altro che Tevez. Entrambi cresciuti nell’All Boys, se Carlitos è il “nueve”, il finalizzatore implacabile davanti alla porta, Dario è “El Diez”. Il calcio. La classe pura e cristallina che corre, lotta, difende la palla come si difenderebbe una bella donna da un branco di ragazzi impertinenti, che dispensa colpi di tacco come un padre affettuoso dispensa carezze al figlio che si è addormentato mentre stava aspettando che rincasasse dal lavoro, incanta con tunnel e poesie, senza mai dimenticarsi di alzare i gomiti quando serve. Quando la mischia lo richiede. Entrambi sono nati nel 1984, ma “El paraguagio” sembra provenire da un altro pianeta, come trasportato lì da chissà quale navicella aliena. Anche Tevez un giorno ha ammesso “Era troppo più forte di chiunque noi”. Insieme era devastanti, anche se ad un provino per il Velez Sarsfield, dove si presentano in quattro, l’unico che viene scelto è proprio Dario. Così ben presto le loro vite si separano, e prendono strade opposte. E sopratutto inattese. Si perché mentre Carlitos continua a correre e sudare per inseguire il suo sogno, Dario non riesce a cogliere l’occasione che la vita e il suo talento gli hanno concesso. Salta spesso gli allenamenti e preferisce sniffare la colla piuttosto che riempirsi i polmoni di fatica e manto erboso appena tagliato. Inizia a frequentare una banda d criminali ammanti del rap americano soprannominati “BackstreetBoys”. Con loro inizia la sua carriera di rapinatore. In una di queste uccide un poliziotto e viene ferito al naso da una pallottola, facendo in modo che la strada lasciasse per sempre il suo segno sul suo volto. Mentre uno dribbla avversari e raggiunge il suo sogno di indossare la maglia del Boca, l’altro schiva le pallottole della Federal fino a che, un giorno, dopo l’ennesima rapina, e circondato dalla polizia, decide di togliersi la vita sparandosi alla testa, mettendo così per sempre fine ad un’esistenza infelice, così maledettamente sudamericana nella sua drammaticità. E lasciando tutti ancora con quel dubbio. Con quella domanda su cosa poteva essere. Magari ancora insieme, un giorno chissà. Almeno nei sogni. Davanti alla Doce. Immaginando Carlitos finalizzare quello che Dario ha appena creato.