I vecchi Dei

Si vestiva semplice, non più firmato. Erano andati quei tempi, lasciando ormai che fosse la sua gloria a precederlo quando passava tra gli sguardi così stupiti dei suoi coetanei nel vederlo lì dopo tanto, troppo tempo. “Ancora esiste!”, avranno pensato. “Dove è stato fino ad oggi? Chi ha frequentato? Esiste un’altra vita oltre a questa, se uno come lui riesce a stare lontano per così tanto?”. Il suo nome era un qualcosa che si pensava quasi astratto. Una specie di favola tramandata nelle comitive alla quale, chiunque decide di narrarla, aggiunge un proprio pezzo. La sua aurea è quasi mitologica, tirata su a calcina e guai, alimentata in notti leggendarie vissute anni prima, quando quelli che adesso si credono i padroni della città, stavano a casa, coccolati da un caldo plaid coi cuoricini sopra e un film romantico in Tv. Quando il cappuccio della sua felpa erano le quattro mura più sicure di questo mondo. Loro erano i vecchi Dei, gli ultimi Dei, non questi cani di adesso che si credono leoni, ma allo specchio sempre cani sono. Ha sempre amato la decadenza. Sapere che anni prima splendeva di luce propria, lasciando che sia sua gloria a parlare per lui, ritirandosi in periferia. Se qualcuno voleva vederlo, doveva scovarlo, avventurandosi tra le strade costeggiate dai casermoni tutti così dannatamente grigi e uguali “La fama non si costruisce i sabati sera d’estate, ma sotto le stelle invernali dei martedì” aveva sempre pensato. Sperava che un qualcosa di lui rimanesse in eterno. Che nella storia della sua città, in un modo o nell’altro, venga ricordo. “E se fossimo immortali? Se mettessero via tutti i pezzi di noi, riponendoli accuratamente in soffitta per ricostruirci esattamente tra cento anni, chiedendosi chi eravamo.” Le luci della notte non definiscono, ma lasciano all’immaginazione con la loro vita soffusa. Lasciano alla fantasia. Al mistero. Ai ricordi di quando ancora esisteva Upton Park e si poteva urlare con le braccia alte lanciate per aria, quando la gloria correva più veloce delle parole per poi vivere di rendita una vita intera. Quando luce decideva di brillare lo stesso, fregandosene dei giorni di pioggia.

L’isola di George Best..

George Best avrebbe sicuramente voluto vivere lá. Lui. Il suo parka nero con il pelo sul cappuccio. Un pallone su cui sedersi come da bambino, quando era solo un adolescente sognatore tra le vie infestate di Belfast. Il gelo. Ed un bicchiere. Sempre in mano. Sempre pieno. Di cosa, dipende. Isola di Hans. Più che un’isola una grossa pietra dall’aspetto lunare situata nel canale Kennedy, nello stretto di Nares, confine naturale tra Canada, con l’isola di Ellesmere, e Danimarca, Groenlandia.
Una terra anonima e ostile, se non fosse che da quasi 40 anni qua si svolge la guerra più gentile del mondo. Dove non regna la polvere da sparo. Dove nessuno è mai morto. Forse solo svenuto. A causa dell’alcool. Una terra contesa quasi più per principio, che per necessità. Più per gioco, che per un reale interesse. Iniziarono i danesi, nel 1984, quando con una spedizione approdarono sull’isola, piantarono la loro bella bandiera rossa con croce bianca sopra, lasciando ai suoi piedi un biglietto con su scritto “Benvenuti in Danimarca”, ed una bottiglia di ottimo brandy proveniente direttamente da Copenhagen. I canadesi, appena saputo dell’accaduto, decisero di contrattaccare, approdando sull’isola, cambiando la croce con l’immancabile foglia d’acero, e lasciando al vento e le intemperie una loro bottiglia di ottimo wiskhey della casa. E avanti così, da quasi quarant’anni. Senza colpi di cannone, ma a colpi di bicchiere. Risate. Battute. Proprio come avrebbe voluto George Best, che mentre guardando il vuoto se ne sarebbe fregato di chi fosse il padrone dell’Isola. L’importante è che ci fosse sempre stato almeno qualcosa bere.

La perla di Utrera..

La perla di Utrera..Non ho mai capito perché Siviglia disti da Londra solo 90 minuti. Un’ora e mezza, più eventuale recupero. Poi, d’improvviso, tutto è diventato più chiaro. Tutta colpa sua. È quel piccolo, insignificante, al cospetto dell’eternitá, lasso di tempo che è bastato agli inglesi per innamorarsi di un ragazzo venuto da lontano, senza sapere però che le sue giocate, avrebbero ben presto avvicinato due città. Quasi come se si toccassero, nonostante il mare e una buona parte di massa di terra a dividerle. Josè Antonio Reyes è arrivato ad Highbury in punta di piedi, come quando giocava sulla fascia destra danzando tra quei birilli umani che non potevano fermarlo. Non dovevano. Antonio è stato lo spagnolo più amato di tutta Londra, nonostante lui non si sia mai realmente ambientato oltre quella manica triste e uggiosa. “È stata la cosa più triste che abbia ma fatto in vita mia”. Lasciare casa. Il nido. Il sole dell’Andalusia, spazzato via da nubi grigie e fumo inglese. Due anni sono bastati ad Antonio per diventare invincibile, come il suo Arsenal. Quello di Arsene. Thierry. Dennis ed una manica di balorde, sublimi leggende passate alla storia. Antonio correva veloce, dotato di una tecnica sopraffina ed un cuore troppo caldo che spesso bruciava il sentiero che collega mente e piedi. Antonio era un talento unico. Un ragazzo sensibile, dove il bianco ed il rosso hanno sempre contraddistinto la sua vita. È stato il primo spagnolo a vincere una Premier League. Correva l’anno 2004, eppure sembra ieri. Anche oggi, se andate a chiedere al popolo del Pizjuan chi sia stato il calciatore più forte che abbia indossato la maglia dei nervionenses, loro, che hanno visto passare Dani Alves, Rakitic, Sergio Ramos, Kanouté, Luis Fabiano e tanti altri, loro, risponderanno sempre lui. Josè Antonio Reyes. Il ragazzo tornato in patria, al Real, dove vincerà una Liga all’ultimo respiro grazie ad una sua doppietta. Poi l’Atletico. Infine casa. 4 Coppe Uefa . Un record. Poi il saluto. A questa terra. Alla sua gente. Ai suoi tifosi, per colpa di una maledetta auto sparata a folle velocità e finita in tragedia. Eppure c’è chi giura che da quel maledetto giorno di giugno del 2019, chiunque cerchi di guardare il cielo notturno in quella meraviglia di terra che è l’Andalusia, può notare una luce in più stagliarsi all’orizzonte. Si dice non sia una stella, ma giusto una perla incastonata nella memoria. Bianca come il suo cuore. Una Perla che magari proviene da quella cittadina stupenda che è Utrera e che anche a Londra possono ammirare nelle notti limpide, dove sembra ancora che Highbury esploda di gioia per serate indimenticabili. Memorabili. Invincibili. Sembra ieri Antonio, ma di sicuro, ti giuriamo, c’è che sarà per sempre..

LaPerlaDiUtrera #innamorarsiaLondra 🔴⚪️