Quel continuo pregare Hugo ‘El Loco’ Gatti..

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Quando Alexander Govan, l’11 dicembre 1954, mette in rete il nono, umiliantissimo gol per il Birmingham, Liverpool capisce che peggio di così, non potrà mai andare.
Mai più.
9-1 a St. Andrews. Per mano del Birmingham, dopo la retrocessione dell’anno prima, quando si credeva che il club dalle stupende maglie rosse avesse toccato il punto più basso della sua storia. Ultimo, con la miseria di 28 punti in quarantadue partite: nove vinte, dieci pareggiate, ventitré perse. Sessantotto gol fatti, neanche pochi, ma novantasette subiti.
Non si può fare peggio.
Non si può.
Ed invece..
Loro, i tifosi del Liverpool non lo sanno, ma quando Govan, la stella scozzese del Birmingham, sozzese tenetelo a mente, perchè dalla Scozia tutto finirá per i ‘reds’, Govan appunto, uno che due anni dopo farà parte del Birmingham finalista, perdente, di FA Cup contro il Manchester City, partita ricordata per l’eroica resistenza del portiere tedesco dei ‘citizens’ Bert Trautmann, che giocherá mezza partita con il collo semi-spezzato da un’entrattaccia di Peter Murphy, e tutto rinascerá, dalla Scozia appunto, per il Liverpool.
Mentre Govan mette a segno quel nono, nefasto gol che sigilla una disfatta e la consegna direttamente alla storia come la sconfitta più pesante mai subita dai ‘reds’, davanti alla miseria, rispetto anche agli standard dell’epoca, di 17.500 anime in piedi e deliranti, mentre quei ragazzi rimasti nel Merseyside non si meritano tutto questo scempio, ecco in quel momento, inconsciamente, mentre quella palla entra lentamente dentro la porta, loro, quelli del Liverpool appunto, stanno consegnando per la prima volta nelle mani di una stupenda squadra sudamericana, forse la più bella di tutto il continente, una Coppa Intercontinentale che si giocherà solo ventitré anni dopo.
L’inizio della fine. La fine di tutto. Del male che lascia il posto al bene.
Si perchè la vita è strana, ed il calcio lo è ancora di più: lui sa perfettamente come ricompensare tanto dolore. Lui dá e toglie quasi allo stesso modo, tanto che alla fine dei conti, ognuno ha sempre ciò che si merita.
1954.
L’inizio di tutto. La fine di un incubo.
Una ventina d’anni dopo quel gol, invece, a metà anni ’70, inizi anni ’80 per l’esattezza, in Argentina, nasce una leggenda del tutto metropolitana che, però, sopravvive ancora tutt’oggi: su centouno bambini nati tra i confini ‘albicelesti’, cento hanno già il destino segnato.
Già.
Cinquantuno di questi, la metá più uno, diventeranno ‘xeneizes’, e cioè ‘hinchas’, come vengono chiamati i tifosi in Argentina, del Boca Juniors.
Quarantanove, invece, cioè la metà meno uno, saranno, peggio per loro, ‘gallinas’, seguaci della ‘Banda’, del River Plate, i borghesi di un calcio proletario.
Polveroso, che non perde le radici con la strada dalla quale proviene.
L’uno rimasto, quello che serve per arrivare a cento uno appunto, invece, se lo dovranno spartire di volta in volta le altre grandi d’Argentina: Velez Sarsfield, San Lorenzo, Independiente, Racing, Estudiantes.
Ma non è finita qua. No. La leggenda continua.
Tra questi ‘uno’, tra quelli cioè scappati alla spietata guerra fratricida tra ‘genovesi’ e ‘galline’, due su tre, in realtà, non saranno mai, fino in fondo, veri e propri tifosi della loro squadra, quella che gli hanno assegnato quasi a caso.
No.
Loro saranno bensì, acerrimi nemici del Boca Juniors, e nient altro.
Già.
Allo stesso tempo la squadra più amata e più odiata del paese. Mai indifferente. Mai inutile.
È un po’ come se la natura volesse ristabilire, dentro i confini argentini, un minimo d’equilibrio che la formazione del popolo cerca, invece, di scombussolare ogni cento uno nascite, di portare fuori dagli schemi ogni qualvolta una madre piange di dolore e gioia, mettendo alla luce la sua creatura.
Ecco.
Come detto questa leggenda nasce alla metà degli anni ’70, inizi anni ’80.
Fatto non casuale.
No. Affatto.
Si perché proprio in quegli anni, il Boca, se possibile, consolida maggiormente la sua leggenda. Il suo misticismo.
È in questo periodo che l’alone mitologico che aleggia da sempre sopra questa squadra, diventa visibile a chiunque.
1976.
Il Boca vince sia il ‘Campionato Metropolitano’, che quello’Nacional’, raggiungendo quota venti
sotto la definizione ‘Campeón de la Primera Division’. Niente male.
Eppure questo è niente in confronto a quello che accadrà di li a poco.
Si perché la vera leggenda ‘xeneize’, il vero mito ‘azul y oro’ prenderà veramente forma l’anno dopo.
Esattamente il 14 luglio 1977.
Estadio Centenario di Montevideo. 60.000 spettatori ‘ufficiali’, quasi 75.000 in realtà.
Boca Juniors – Cruzeiro. Finale de ‘La Copa Libertadores de Amèrica’, conosciuta più semplicemente come ‘Copa Libertadores’.
Argentini contro brasiliani.
Due mondi. Due visioni opposte di guardare ed interpretare la stessa passione: il calcio.
Potenza contro fantasia.
Cuore contro leggerezza.
Tango contro samba.
Due realtà.
Due popoli.
Un solo obbiettivo.
Si, ok, tutto vero.
Verissimo.
Però aspettate un secondo, scusate.
Estadio Centenario di Montevideo, la casa del Penarol.
Penarol.
Quindi Uruguay.
Ma la Libertadores non prevede affatto una sfida in finale secca, oltretutto in campo neutro.
No!
No no.
Ed invece si.
Si che la prevede.
La prevede se si tratta di uno spareggio dopo due partite tragiche che non hanno portato proprio ad un bel niente.
La prevede eccome.
Nelle sedici edizioni precedenti, ovvero dall’inizio della competizione, nel 1960, è capitata già la bellezza di ben dieci volte.
Si perché questa coppa è meschina. Bastarda. Subdola. È cosparsa di olio bollente perché scappi dalle tue mani un secondo prima che sia finita davvero.
Il Sudamerica è un continente caldo, vivo. Rumoreggiante, dove il fattore campo è praticamente il novantanove virgola novantanove percento periodico del risultato.
Oltretutto i gol in trasferta non valgono, all’epoca, quindi l’andata la puoi anche vincere 10-0, se però il ritorno lo perdi 1-0 al 98esimo, è tutto da rifare.
Proprio come dieci volte in sedici anni.
Esattamente come l’anno prima, quando proprio il Cruzeiro si era ritrovato in una situazione del genere. Ancora una volta contro un’argentina. Ancora una volta contro una squadra di Buenos Aires.
L’odiato River.
Andata il 21 luglio all”Estadio Minerão’ di Belo Horizonte.
Nelinho.
Palhinha.
Ancora Palhinha.
Gol della bandiera di Mas.
Valdo.
4-1 dei brasiliani e tutti a casa.
Senza drammi però.
Si perché alla fine, nel ritorno, non sarebbe servita una goleada agli argentini per pareggiare il conto degli scontri diretti.
No.
Anche un misero gol in più per andare poi alla spareggio bastava ed avanzava.
E così avviene.
Sette giorni dopo.
28 luglio 1976.
Stadio Monumental.
90.000 spettatori accertati. Un ambiente delirante, al limite dell’autocombustione vera e propria.
Ecco, io non so se avete presente realmente cosa vuol dire giocare a metà anni ’70, in Argentina, davanti a 90.000 persone che in quel preciso momento ti odiano più di ogni altra cosa al mondo, in un periodo in cui non esistono replay, non esistono processi mediateci il giorno dopo, non esiste youtube il giorno seguente la partita che mostri ciò che è realmente successo in campo. Un periodo in cui la polizia chiude un occhio molto più facilmente che adesso, in cui l’arbitro viene prelevato da dirigenti e tifosi di casa prima della partita giusto per ricordargli come deve finire il match, in cui all’arrivo allo stadio ti scagliano di tutto contro il pullman gridandoti che non rivedrai più tua moglie ed i tuoi figli se farai l’eroe quella notte.
No.
Non ci esci vivo da una situazione del genere se non hai un minimo di autocontrollo.
Ed infatti il River ce la fa.
Lopez.
Pareggio di Palhinha, sempre lui, e gol della vittoria di Gonzalez.
2-1 e tutti a Santiago del
Cile per lo spareggio.
Inutili le goleade.
Inutili molte cose nella Libertadores.
Serve solo il carattere. La capacità di isolarsi completamente dal mondo che ti circonda.
Pensare e credere di giocare nel cortile sotto casa, e non nella tana del leone.. altrimenti sei fregato.
Due giorni dopo la gara di ritorno, lo spareggio.
30 luglio.
Nelinho.
Ronaldo, non il fenomeno che nascerà esattamente 54 giorni dopo quella partita a Bento Ribeiro, Rio de Janeiro, e ne tantomeno parente di quel fenomeno. No. Eppure giocatore anch’egli della prima squadra professionistica del Ronaldo che conosciamo noi.
Il calcio, che storia..
Mas.
Urquiza 2-2 River e gol all’88esimo di Joãozinho. Finita.
Coppa al Cruzeiro Esporte Clube per la prima volta nella sua storia.
Questa volta un gol, anche uno solo, è servito. È stato fondamentale. È stato decisivo.
A Nunez, quartier generale della ‘Banda’, riaffiorano gli stessi fantasmi apparsi esattamanete dieci anni prima, gli stessi che si manifestarono nel ’66 contro il Penarol.
Stessa modalità.
2-0 in Uruguay.
3-2 in Argentina.
4-2 dopo i tempi supplementari. Dopo una partita regolamentare tragica. Finita 2-2. Ancora in Cile, ancora a Santiago.
La sfortuna si accanisce sul River. Si accanisce su Buenos Aires.
La Copa Libertadores, in Argentina, rimane prerogativa di altri: 7 volte ad Avellaneda, 6 volte campione l’Independiente, 1 il Racing Club.
3 volte a La Plata, sponda ‘pincha’, Estudiantes.
Poco importa.
Il River ha perso ed a ‘La Boca’ la storia della Coppa che sembra snobbare Buenos Aires importa proprio un bel niente, anzi.
Nel 1976 meglio così. Viva la Coppa ed il suo rifiuto per la capitale.
Viva chi batte il River. Praticamente una seconda maglia. Viva il Cruzeiro.
Già.
Questa volta però è diverso.
Quest’anno è differente.
Questa volta è il Boca a giocarsela questa benedetta coppa.
Proprio contro gli eroi di un anno prima. Quelli che avevano ‘matato’ il grande nemico, ‘los gallinas’, e che adesso, anche quest’anno, anche stavolta, nel 1977, stanno fottutamente vendendo cara la pelle.
1-0 alla Bombonera, il 6 settembre. Gol di Veglio al terzo minuto. La partita non cambierà più fino al novantesimo.
Si va in Brasile per cercare l’impresa.
Ma questa non avviene.
1-0 per ‘i celesti’. Nelinho, quello presente anche l’anno prima, uno dei giustizieri degli odiati nemici.
1-0.
Si va in Uruguay.
Stadio Centenario.
Gatti, Pernia, Tesare, Mouzo, Tarantini, Benitez, Sune, Zanabria, Mastrangelo, Veglio, Felman.
Una tragedia sportiva.
0-0 nei tempi regolamentari.
Si va ai supplementari.
0-0 anche qui.
No.
La palla non vuole proprio entrare.
Buenos Aires vacilla ancora.
Meglio perdere, forse, che arrivare alla lotteria dei rigori.
Il cuore non può reggere. Le arterie e le coronarie non sono pronte per un simile sforzo.
Almeno nel 1963 contro il Santos di Pelé non ci fu nè tempo nè modo di arrivare ai rigori.
Neanche allo spareggio, ad essere sinceri.
3-2 a San Paolo.
1-2 alla Bombonera e tutti a casa. Infelici ma vivi. Con il cuore spezzato dal dolore ma non scoppiato dalla tensione.
Ma stavolta no.
Stavolta la Coppa è lì. Ad un passo. La si può praticamente toccare. Baciare. La si può sedurre.
Però..
Già. Però..
I rigori.
Quei maledetti.
Juan Carlos Lorenzo, detto ‘Toto’, allenatore dei ‘genovesi’, uomo di ‘garra’, con le vene sul punto di scoppiare da un momento all’altro, chiama i suoi ragazzi a sè e dice a loro guardandoli uno ad uno negli occhi ‘La cosa es muy simple: si marcamos todos los rigores que tirar, vamos a ser campeones. De lo contrario, corremos más de 300 minutos para verlos ganar. [La cosa è molto semplice: se segnamo tutti i rigori che tiriamo saremo campioni. Al contrario, avremmo corso 300 minuti per vederli vincere]’.
Maledetti rigori.
Maledetti spareggi.
Maledetta Libertadores.
Si perchè in Europa, la Coppa Campioni è ben diversa.
Gli europei sono molto meno crudeli. Hanno più pietà per gli sconfitti.
Esattamente come è successo qualche mese prima in quello stesso anno, il 25 maggio per la precisione.
Stadio Olimpico di Roma.
Finale della massima coppa europea per club: Liverpool – Borussia
Mönchengladbach.
Due squadre alla loro prima volta in finale di Coppa Campioni.
Ma come.
Il Liverpool ?!
Proprio loro?
Quelli che ventitré anni prima persero in Second Division 9-1 al St. Andrews per mano del Birmingham City!?
Quelli del famoso gol di Govan?!
Si signore.
Proprio loro.
Vi ricordate: la storia ed il calcio sanno come ricompensare tanto dolore.
Con i ‘reds’ hanno fatto proprio così.
Anzi.
Più che la storia, più che il destino con il quale troppe volte ci riempiamo la bocca, qua gli unici che i tifosi del Liverpool dovrebbero ringraziare realmente in eterno sono la signora Barbara ed il signor John da Glenbuck, Scozia.
Soltanto questi due sposini e nessun altro.
Ecco la Scozia che ritorna per il Liverpool, dopo Govan.
Si perché nonostante quasi tutti gli uomini a Glenbuck facessero i minatori, il signor John, invece, aveva intrapreso un’altra professione, quella del sarto, mentre sua moglie, la signora Barbara, faceva la casalinga.
Questa coppia ebbe nel tempo la bellezza di dieci figli: cinque maschi e cinque femmine, giusto per non fare un torto a nessuno.
John, Bob, Jimmy, Bill, Alec, Netta, Elizabeth, Isobel, Barbara e Jean.
Quasi tutti di questi figli seguirono le orme del padre nella piccola azienda familiare.
Uno, invece, no.
No no.
Lui proprio a cucire non si riusciva ad immaginare.
Egli, spinto da un amore indescrivibile, sognava altro.
Il 2 settembre 1913 quando il loro terzo genito Bill nasceva a Glenbuck, l’Everton esisteva già da trentacinque anni ed aveva vinto un campionato ed una FA Cup.
Il Liverpool, invece, era nato ben 21 anni prima, tra l’altro con il nome di ‘Everton Fc and Athletic Ground plc’ ed aveva ereditato Anfield proprio dai cugini in maglia ‘blu’ che ci avevano giocato dal 1884 al 1892, e di campionati ne aveva vinti due, senza mai conoscere l’ignobile onta della serie cadetta.
La conoscerà quarantuno anni dopo, quando il terzo figlio di Barbara e John, Bill, Shankly di cognome, è un giovane allenatore che siede sulla panchina del Grimsby Town, dopo essere stato per due anni il manager del Carlisle United, seduto qua a sua volta dopo una brillante carriera da calciatore nel gloriosissimo Preston North End, la prima vera grandissima squadra che l’Inghilterra ha mai avuto: campione dei primi due campionati ufficiali inglesi [1888/89-1889/90] e la prima squadra al mondo a mettere a segno un cosiddetto ‘double’ [nel 1889 con l’aggiunta, al campionato, della FA Cup].
Bill arriva ai ‘lilywhites’ molti anni dopo [1933] e vi rimane per ben 16 anni.
Bill non lo sa, ma se il Liverpool oggi è il Liverpool, molto, se non tutto, lo deve proprio a lui.
Al figlio di Barbara e John che nel 1959, ben cinque anni dopo la ‘retrocessione rossa’, viene chiamato sulla panchina dei ‘reds’, ed in poco tempo mette in atto un vero e proprio miracolo sportivo: ricostruisce la squadra, dá fiducia ai giovani e nel 1962 riporta il Liverpool nel campionato che gli spetta.
Ma non è finita.
No.
Perché come se non bastasse, soltanto due anni dopo l’aver fatto riassaporare il Paradiso al gente della Kop, nel 1964, Bill porta i ‘rossi’ addirittura alla conquista di una storico campionato che ad Anfield non vedevano da 17 anni [stagione 1946/47].
È proprio in quel preciso giorno, quel 2 settembre 1913, che il Liverpool diventa grande.
Forse, appena nato, Bill non lo sa, ma lui in realtâ è già tifoso viscerale dei ‘reds’, esattamente come racconta lo stupendo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano nel suo capolavoro ‘Splendori e miserie del gioco del calcio’, libro eccezionale che vi consiglio di leggere assolutamente, in cui Galeano racconta l’aneddoto del grande scrittore ‘celeste’ Paco Espinola, quando, una sera d’estate del 1960, per sbaglio, egli, alla radio, si imbatte nel ‘clasico’ Penarol-Nacional. Espinola non ama il calcio, ma incuriosito da quelle parole mai sentite, decide di non cambiare stazione.
Il Penarol perde 4-0. Paco si alza dalla sua poltrona e va a letto. Stranamente non riesce a dormire. Una malinconia interiore lo sovrasta, lo avvolge come invece dovrebbero fare le sue coperte. Paco è triste. Lui non lo sa, ma quella malinconia gliela stava procurando solo e soltanto il risultato del ‘clasico’ appena terminato.
Paco non lo sapeva ancora, e lo scoprirà solo quella sera: lui ha sempre tifato per il Penarol.
Un po’ come deve essere successo a Bill ed al suo Liverpool.
Ci vorranno anni perché i due si incontrino.
I ‘reds’ dovranno prima conoscere la serie inferiore e la vergogna di un 9-1 a Birmingham che la storia non cancellerà mai definitivamente dall’anima della società.
Dovranno soffrire per vedere le stelle.
Ma ce la faranno.
Rinasceranno più forti di prima.
Come quel giorno a Roma.
Quando il Liverpool arriva per la prima volta in finale di Coppa Campioni.
Quella coppa che poi vincerà per ben cinque volte.
Contro il Borussia Mönchengladbach, quando sulla panchina dei ‘reds’ sedeva un altro condottiero, Bob Paisley, secondo di Bill Shankly quando lo scozzese era l’allenatore del Liverpool, ed una vita intera per quella maglia. Come calciatore dal 1939 al 1954, anno della retrocessione. Come allenatore, prima riserve, poi vice, poi manager vero e proprio, dal 1954 al 1983. Palmares mostruoso: un campionato come calciatore, sei da allenatore. Tre Coppe di ‘Lega inglesi’, sei ‘Charity Shield’. Tre ‘Coppe Campioni’, quando la Coppa dei Campioni aveva si meno partite, ma la giocavano veramente le più forti del continente. Non come adesso che si qualifica la sesta del campionato cipriota o la quarta di quello moldavo. No. A quei tempi la prima partita era giá un massacro vero e proprio. Una tragedia.
Una ‘Coppa UEFA’, una ‘Supercoppa Europea’.
Una leggenda.
L’allenatore più vincente nella storia dei ‘reds’, titolo che però non gli è valso ugualmente la nomina dalla Kop di ‘allenatore del secolo’.
No.
Quello è andato a Bill Shankly.
Il primo amore, non si scorda mai.
A Roma, i ‘Bobby Boys’partono subito forte, con McDermott.
Pareggia Simonsen.
2-1 Liverpool di Smith e rigore della sicurezza di Neal.
3-1 per i ‘reds’ e Liverpool per la prima volta in cima al continente.
Per la prima volta nella competizione più importante di Europa, le maglie rosse del Merseyside sventolano, insieme alle bandiere, più alte di tutte.
Ben presto i due continenti calcisticamente più importanti del mondo, Sudamerica e Liverpool, saranno indondati da un solo colore: il rosso.
Independiente da una parte,
Liverpool dall’altra.
La placida Coppa Campioni contro la tragica Copa Libertadores.
Già.
La Libertadores e quei rigori al Centenario.
‘El Toto’ Lorenzo, giramondo di professione, allenerà in vita sua centinaia di squadre, Maiorca, San Lorenzo, l’Argentina, Lazio, Roma [con cui vincerà una Coppa Italia nel 1964], River Plate, Atletico Madrid, Union de Santa Fe, Racing Club, Argentinos Juniors, Velez Sarsfield, Atlanta e molte più di una volta, è in piena trans agonistica.
Si gira verso il portiere, Hugo Gatti, e gli urla ‘Chico, es el momento para que usted pueda probar algo [Ragazzo, è arrivato il momento che tu dimostri qualcosa]’.
Ecco, se ho imparato qualcosa da quando mi sono appassionato un po’ al Sudamerica ed al suo favoloso ‘fùtbol’, è quello di non provocare mai uno come Hugo Orlando Gatti, per tutti solo ‘El Loco’ Gatti, perché non sai mai cosa puoi combinare. Come gli può girare qual giorno.
Si lo so: l’ennesimo calciatore sudamericano, in particolare argentino, che viene chiamato ‘Loco’, ‘Pazzo’.
Ma stavolta giuro che è vero.
Non c’è stato nessuno, in tutto il Sudamerica, che si è mai meritato questo soprannome più di Hugo Gatti.
Personaggio fantastico, incredibile, non basterebbero cento vite e neanche questo blog per intero per descriverlo tutto.
È stato uno dei portieri più forti che l’Argentina abbia mai avuto. Forse il più forte dopo Amadeo Carrizo, il portiere del River anni ’40-’50 e ’60, quello della famosa e superba ‘Maquina’, ed Antonio Roma, icona del Boca per dodici anni [1960-72]. Sicuramente il più matto, il più cattivo, secondo solo ad Alberto Poletti, ‘el Carnicero’, il macellaio di La Plata, il giustiziere, insieme a Rámon Aguirre, del milanista Nestor Combin, reo di aver scelto la nazionalità francese piuttosto che quella argentina, nella tragica notte del 22 ottobre 1969, quando, nella partita di ritorno della Coppa Intercontinentale, giocata alla Bombonera per accogliere il più possibile il calore dei ‘pincharratas’, dei pugnalatori, i due fanno carne da macello del povero ragazzo con la maglietta non rossonera, ma bianca, per l’occasione.
Stop.
Per il resto nessuno è stato, è e sarà più pazzo di Hugo Orlando Gatti.
Nasce a Buenos Aires, nel 1944, ed alla nascita fa parte di quei famosi cinquantuno, la metá più uno. È un grande tifoso ‘xeneize’, ma gli sforzi per entrare a far parte dei ‘gialloblu’ sono vani, così cresce calcisticamente nel Club Atletico Atlanta.
Le sue qualitá tra i pali si notano praticamente subito, così come non passano inosservate le sue scorribande offensive: Hugo era solito prendere il pallone al limite della sua area e cercare di dribblare più avversari possibili, vizietto abbastanza comune nei portieri, nel caso, chiedere ad Higuita, o Roger Milla se preferite.
Però, bisogna essere sinceri: questo tra i pali ci sapeva proprio fare. Ha solo 18 anni ma sfodera già una personalità ed un carisma che sono quelli di un veterano.
No no.
Questo nell’Atlanta è sprecato.
Se ne accorgano a Nunez, al River Plate, dove quell’Amadeo Carizzo citato prima, era ormai proiettato verso la curva discendente della sua straordinaria carriera, ed un ragazzo come ‘el Loco’, uno giovane ma già pronto, che sostituisse la vecchia gloria da un momento all’altro, alla ‘Banda’, serviva come il pane.
Hugo però di andare al River proprio non ne vuol sapere.
Lui mica è uno dei quarantanove.
No.
Lui è uno dei cinquantuno.
Lui ama il Boca ed a quei tempi, la rivalità tra le due squadre stava forse toccando il suo limite massimo.
È proprio negli anni ’60-’70 che la leggenda del ‘SuperClasico’ si forgia e si consolida.
Hugo di indossare quella maglietta bianca con quella ridicola striscia rossa che lo trapassa da parte a parte, proprio non ne vuol sapere.
Però quelli River, non per niente chiamati ‘Millonarios’, sono disposti a pagare bene. E tanto.
L’Atlanta fa delle pressioni sul ragazzo, che alla fine, a malincuore, accetta.
‘Pensandoci bene, il River potrebbe essere un trampolino per arrivare al Boca. Male che vada, li distruggerò dall’interno’, pensa Hugo. E così, alla fine, farà.
Esordisce a 20 anni con la maglia della ‘Banda’, ed è proprio in questo periodo, che la sua leggendaria fama si plasmerà per sempre.
Capellone, bandana (o straccio, dipende da quello che trovava) legato stretto intorno alla fronte, calzettoni calati fino alle cavaglie senza parastinchi.
In quella stagione nasce uno dei portieri più favolosi che il ‘fùtbol’ abbia mai conosciuto.
Il 3 aprile 1966, durante un Boca Juniors-River Plate, che i ‘millonarios’ vinceranno per 1-3 alla Bombonera, quando Hugo si va a posizionare sotto la ‘doce’, il popolo ‘xeneize’ decide di accoglierlo all’argentina: ovvero di tirargli di tutto.
In campo vola qualunque cosa: bottiglie, biglie, bulloni e persino una scopa.
Hugo non fa una piega. La prende ed inizia a spazzare l’area di rigore da tutto ciò che era arrivato dall’alto.
Per la prima volta nella storia di un ‘Superclasico’, la Bombonera esplode ed inneggia ad un calciatore rivale. Ad un nemico. Ad una odiata ‘gallina.
Hugo farà parte anche, quello stesso anno, pur non scendendo mai in campo in nessuna finale, del River, allenato da un certo Renato Cesarini, quello famoso per la ‘Zona Cesarini’, la zona del gol all’ultimo respiro, che perderà la Copa Libertadores nella terza, tragica partita contro il Penarol, che diventa la prima squadra sudamericana a diventare Tricampeon.
Anni dopo Gatti dirà che in realtà, quella sera a Santiago, lui sperava di perderla quella finale. ‘Perché la prima Libertadores di Buenos Aires non poteva essere del River’.
Il ragazzo gioca bene, è bravo e si applica, come direbbe qualche professoressa contro corrente, però davanti a lui c’è sempre Carrizo. E Carrizo non si tocca. A Nunez è una leggenda, un santo in calzoncini.
No no. Meglio cambiare aria.
Viene ceduto nel 1969 al Gimnasia di La Plata e poi all’Union di Santa Fe nel 1975.
Poi, a 32 anni suonati, arriva lei.
La sua religione bussa alla porta.
Hugo non sa chi pregare per quel dono: quando ormai credeva di essere ‘finito’ calciaticamente, viene acquistato dal Boca Juniors.
La sua squadra del cuore. Quella maglia che un giorno sperava di indossare e che lo aveva fatto capire in ogni modo, come per esempio quando giocava nel Ginnasia La Plata ed all’improvviso lasciò sguarnita la sua porta solo per correre sotto la ‘Doce’ e mostrare la maglietta ‘Azul y Oro’ che aveva sotto.
Hugo esaudisce il suo sogno.
Era ‘el verano’, l’estate del 1976, ed un ragazzo di 32 anni, improvvisamente ritorna bambino.
Hugo arriva, vince due campionati e rimane in maglia ‘xeneize’ per ben tredici anni, fino al 1989, lasciando il calcio alla bellezza di 45 anni.
Un pazzo.
I suoi rapporti con i tifosi del Boca, ai tempi del River tragici, adesso sono ben diversi.
La Bombonera lo ama e vede in lui quel leader che da quelle parti mancava da tanto, troppo tempo.
Hugo Gatti diventa il primo, e praticamente unico, calciatore a cui i ‘bochensi’ perdonano quel passato da gallina.
Dovete pensare che se adesso,
con gli occhi del nuovo millennio, vedete la rivalità del ‘SuperClasico’ come la più accesa del mondo, vi assicuro che essa con l’andare del tempo si è decisamente ridimensionata.
Basti pensare che fino a metà degli anni ’60, in Argentina, i matrimoni tra tifosi del River e del Boca erano vietati, forse allora riuscite a capire meglio di cosa sto parlando.
Hugo, però, è un’altra cosa. È solo un ragazzo vivace che in gioventù ha commesso un errore.
Grave, ma perdonabile.
Solo stavolta. Solo con lui.
Gatti diventa ben presto il leader della squadra ed il re del barrio: ogni notte ‘el loco’ si diverte nei locali del ‘Caminito’ e nelle case di signorine molto disponibili ed avvenenti. Il giorno, è il più forte portiere d’Argentina.
Gli aneddoti su questo fantastico personaggio sono centinaia: ad esempio la storia ci racconta che nel 1977, durante un noioso Boca -Independiente, partita in cui il ‘Diablo Rojo’ non tira praticamente mai in porta, Hugo, ormai in su con l’età ma con ancora l’abilità di un felino [basti vedere il suo cognome] decide di arrampicarsi sulla traversa della porta che dovrebbe difendere e si siede su essa, facendo letteralmente scoppiare la Bombonera in un boato che solo i gol storici hanno provocato.
Hugo è veramente un pazzo, un matto per natura.
Un giorno in trasferta in Russia con la nazionale dell’Argentina, con la temperatura che sfiora lo zero, riempie la sua bottiglietta, che portava sempre con sè, di vodka e se la scola durante il match.
La leggenda, addirittura, narra che un giorno, ‘el Loco’, ai tempi del Boca, sia sceso in campo con la maglia da portiere dell’Atletico Madrid speditagli da un amico.
L’aneddoto più famoso per cui si ricorda Hugo Orlando Gatti è, però, una figuraccia che gli inflisse sua maestà Diego Armando Maradona.
Si perché Gatti ha avuto una carriera talmente sconfinata che ha avuto la fortuna di giocare sia con una leggenda come Amadeo Carrizo, idolo della ‘Maquina’ anni ’60, sia con ‘Dio’ in persona: Diego.
8 agosto 1980. Il giorno dopo si deve giocare Boca Juniors-Argentinos Juniors.
Tra le fila de ‘Los Bichos Colorados’, letteralmente ‘le
formìche colorate’, gioca da qualche anno un giovane calciatore, appena ventenne, etichettato da tutti come il futuro ‘migliore calciatore della storia’.
Da tutti tranne che da Hugo Gatti, che quel ragazzo proprio non piace. E non ne fa un mistero.
‘Dove vuole andare quello: sembra un barilotto grassottello, un ciccione [letteralmente lo chiama ‘gordito’]. Si fa prima a saltarlo che girargli intorno. Non potrà mai segnarmi’.
Beh, non si può dire che il coraggio sia stato un elemento mancante nella vita del ‘Loco’.
Ma questo, a volte, non basta.
Si perché il giorno dopo, il barilotto, quel Maradona di cui tutti dicono ‘Però, bravo questo’, tranne Hugo, a quel portiere spaccone segna qualcosa come quattro gol.
Non uno. Non due. Non tre. Ma quattro. Senza appelli.
Quattro pere e ciao.
Ad Hugo Orlando ‘El Loco’ Gatti, la leggenda. Il mito della squadra che lo stesso Diego ama e venera.
Il capitano che riuscì a trasformare l’ossesione dello storico presidente ‘bochense’ Alberto J. Armando in sogno.
Tutto grazie a quella magnifica sera di Montevideo del 14 settembre 1977, appena dopo essere stato punzecchiato dal suo allenatore Juan Carlo Alberto.
Ecco, adesso che conoscete leggermente meglio chi fosse realmente Hugo Gatti, potete immaginare cosa scaturirono in lui quelle dichiarazioni di Juan Carlos Alberto davanti a tutta la squadra.
Hugo non risponde.
Si dirige verso la porta dove verranno tirati i rigori e, confesserà lui anni dopo, dice tra se e se, ‘Hijo de puta. Te voy a mostrar ahora’.
‘Te lo faccio vedere io adesso’. E così sarà.
Dopo qualche minuto di sospensione, causa nebbiolina che impediva di poter vedere da una parte all’altra dell”Estadio Centenario’, la tremenda tragedia calcistica può iniziare.
Il primo a presentarsi sul dischetto in maglia bianca, si perché il Boca aveva vinto la prima partita alla Bombonera con la sua tradizionale maglia blu con striscia orizzontale gialla, ma aveva perso al ‘Mineirão’ dopo, dice la leggenda, aver indossato una inguardabile maglia color ‘amarillo’, ‘gialla’, che non verrà mai più riproposta per molti anni, questione di cabala, è Roberto Mouzo. Un’altra leggenda ‘xeneize’: tredici anni alla Bombonera, una vita per il Boca. Per quella maglia.
L’arbitro fischia.
Il difensore parte, destro secco alla sua destra.
Palo.
Noooo.
Palo.
È finita prima di inziare.
Anche stavolta.
Ancora una volta.
Aspetta.
C’è stato un fischio!
È quello dell’ arbitro.
Raùl, il portiere del Cruzeiro, si è mosso in anticipo. Era troppo avanti al momento del tiro. Tutto da rifare.
Dio tifa veramente Boca. Almeno quella sera di 37 anni fa.
Mouzo ha la possibilità di farsi perdonare. Di ricucire le coronarie dei suoi tifosi, letteralmente esplose al momento del suo sbaglio precedente.
Qualcuno, lassù, indirizza la palla nel lato opposto, e qualche centimetro più in mezzo, per essere sicuri.
Gol.
1-0 Boca.
Tocca a Darcy Menezes, difensore ‘celeste’.
Anche lui, preciso e deciso. Angolino basso destro, lo stesso dove Mouzo aveva colpito il palo. Non lui. Non Menezes.
1-1
È il turno di Josè Luìs Tesare. Difensore marmoreo che non ha mai segnato un solo gol in carriera. Tranne quella sera.
Destro perfetto. Basso. Angolato. Imparabile.
2-1 argentino.
Gli uomini che meno ti aspetti, sanno essere eroi nel momento del bisogno.
Tocca a Antônio Rodrigues Filho, universalmente conosciuto come Neca, giramondo brasiliano, calcisticamente parlando.
Attaccante per necessità, centrocampista per talento.
Niente da fare.
2-2.
È il turno di Mario Zanabria, sublime regista che solo due anni prima il Boca aveva strappato alla ‘Lepra’ di Rosario, il Newell’a Old Boys, dove era considerato praticamente un ‘Dio’.
‘Tremenda responsabilità’ dice il telecronista dell’epoca.
Piede sinistro educato e vellutato. Cuore impavido. Una sensibilità in quell’attrezzo del mestiere paragonabile a quella che i comuni mortali hanno nelle loro mani.
Mario non può sbagliare.
E non sbaglia.
3-2.
Sul dischetto adesso si presenta Josè Francisco de Morais, difensore brasiliano nato l’anno del ‘Maracanazo’ e, proprio per questo, considerato portatore di ‘sfortuna’.
Niente di più falso. Almeno non quella sera.
Destro alto, sotto la traversa. Di quelli che non prendi manco se preghi.
3-3.
Tocca a Vicente Pernia, detto ‘El Tano’, ‘il fuorilegge’. Il capitano. Un personaggio inenarrabile: di ruolo spaccapietre, questo nasce calcisticamente nell’Estudiantes de La Plata, dove rimane fino al 1972, anno in cui viene acquistato dal Boca e dove rimarrà otto anni, per chiudere la carriera, per una sola stagione, al Velez.
A metà anni ’90, a più di 45 anni suonati [Pernia è un classe ’49] si da all’automobilismo, diventando un pilota della Ford.
È universalmente riconosciuto, dai tifosi del Boca, come uno degli idoli massimi mai passati dalla Bombonera.
Quella sera, da buon leader, non sbaglia: prova un mezzo cucchiaio che gli riesce male ma che sorprende ugualmente Raùl.
4-3 Boca.
Tocca a Eli Carlos, detto ‘Livio’, di chiare origini italiane.
Hugo Gatti, ‘el loco’, l’indio con la bandana, aspetta il tiro.
Vuole essere protagonista anche lui.
Ma non è ancora il suo momento.
Livio parte e fa 4-4.
È il quinto rigore. L’ultimo per il Boca.
Uno sbaglio potrebbe significare ‘Addio’, ‘Adios’, Au revoir’, alla Cantona, ‘Bye Bye’.
Tocca a Dario Felman, attaccante classe ’51. Destro preciso. Forse il più preciso della serata. Palla da una parte, sinistra, portiere dall’altra.
5-4 Boca.
Sul dischetto per il Cruzeiro arriva Vanderley Lazaro, difensore tecnicamente blando, da non confondere con l’altro Vanderlei, Eustaquio de Oliveira per la precisione, detto Palhinha, quello che l’anno primo segnò una caterva di gol e che quest’anno non c’è, perché dopo essere stato il capocannoniere della Libertadores 1976 con qualcosa come 13 gol, diventando così il miglior cannoniere brasiliano in una singola edizione della coppa più importante del continente, è passato al ricco Corinthians, che pur di averlo ha fatto carte false, sborsando qualcosa come un milione di dolares, che per il calcio moderno sono noccioline per terra, ma che in realtà è rimasto per anni come il trasferimento più oneroso nella storia del calcio brasiliano.
Peccato. Peccato perché sarebbe servito uno così.
In Brasile, dopo la finale di Montevideo, diranno che il Boca è stato fortunato a non incontrare Palhinha sulla sua strada, altrimenti le due partite, quella di Buenos Aires e di Belo Horizonte, sarebbe stato quasi inutile giocarle.
Ossi duri ugualmente questi brasiliani, non per niente sono i campioni in carica.
Ma adesso sul dischetto c’è il Vanderlei sbagliato.
Ed il ‘Loco’ lo sa. Lo annusa come un orso bianco fa con una preda: anche a cinquanta chilometri.
Hugo capisce che quel Vanderlei lì, non è quello forte, ed ha paura.
Il panico glielo si può leggere negli occhi.
È terrore. È agonia per una responsabilità più grande di lui.
Hugo lo sá.
Lo ha già capito.
Vanderlei, quello non forte, parte.
Poco convinto. Esattamente come il suo sinistro.
Debole. Fiacco. Poco angolato.
Il pazzo si butta alla sua sinistra e para il rigore.
In quel preciso momento, due boati iniziano a percorrere in direzioni opposte il ‘Rio de La Plata’: uno è partito da Montevideo, dall’Uruguay e sta dirigendosi verso l’Argentina a grande velocità. Include le urla dei calciatori che dal centrocampo stanno correndo verso quel portiere di trentatré anni che è riuscito dove tutti i suoi predecessori, dal 1963 in poi, hanno fallito. Include quelle del presidente Alberto Josè Armando, che finalmente vede esaudirsi un sogno che credeva di non raggiungere mai. Include quelle di 35.000 temerari che hanno raggiunto ‘El Centenario’ con qualunque mezzo possibile per assistere alla storia. Include quelle di Juan Carlos Alberto che è riuscito a conquistare il primo trofeo continentale della sua carriera, dopo esserci andato vicinissimo in Europa tre anni prima, con l’Atletico di Madrid capitanato da Luis Aragones e fermato solo dal suo Bayern Monaco del mito vivente Franz Beckenbauer.
L’altro boato, invece, è partito da Buenos Aires, zona sud, quartiere di ‘La Boca’ e limitrofi, e si sta dirigendo verso Montevideo. Dentro di se porta le grida di gioia di un popolo che dal 3 aprile 1905 ha avuto occhi e cuore solo per lei.
Per il Boca. Per quella religione di due colori.
Per quella passione che prima che inventassero il futbol non la si credeva possibile.
I due boati, quella sera, si icontrarono in un punto non definito del fiume Paraná, e qui faranno l’amore per l’eternità.
Se Dio tifa Boca è grazie anche a notti così. A serate così. A uomini così. Come Hugo Gatti da Buenos Aires, con un passato da ‘gallinas’ ma col cuore bostero. Nato a 33 anni, gli anni del nostro signore.
Stessi capelli, stesso carisma, stesso magnetismo. Solo la bandana può distinguerli.
Ma è solo l’inizio.
Si perché adesso c’è da conquistare il tetto del mondo. Il gradino più alto di una scala che porta al Paradiso.
C’è l’Intercontinentale adesso.
Quello del ’70 è stato un decennio difficile per questa affascinante coppa: venerata nei dieci anni precedenti, completamente snobbata in seguito, tanto che molte suqadre europee decidono di declinare l’invito non volendo partecipare a pericolose e massacranti trasferte.
Nel 1973 l’Ajax rifiuta di partecipare. Al suo posto gioca la Juventus, seconda classificata. La finale, per la prima ed unica volta, si gioca in partita secca, a Roma. L’avversario è l’Independiente, campione di tutto in Sudamerica. Gli argentini vinceranno poi per 1-0.
Nel 1974, il Bayern Monaco campione della Coppa Campioni, decide di non parteciparvi, dando quindi il via libera a quell’Atletico che Lorenzo aveva portato ad un passo dalla gloria, e che diventerà il primo club al mondo a diventare campione del mondo pur non essendo mai stato campione del suo continente.
L’anno successivo, così come nel 1978, addirittura non viene neanche disputata.
Troppo dispendio di tempo ed energie preziose, troppi i rischi ed i pericoli, specialmente per gli europei, che in realtà si celano dietro queste trasferte: nel 1960, al Real Madrid, arrivato in Uruguay per giocare contro il Penarol, vengono trinciate di netto le ruote del pullman.
Nel 1965, i tifosi dell’Independiente, sempre loro, accolgono la squadra dell’Inter a loro modo: con lanci di sassi e biglie verso i finestrini dei giocatori terrorizzati.
La finale di ritorno del 1969, invece, verrà ricordata come una delle più grandi mattanze della storia del calcio: dopo il 3-0 di San Siro, il Milan arriva in Argentina dove ad attenderli c’è una vera e propria guerra.
Sarà la notte di Combin e del sangue che scorrerà per tutta Buenos Aires, tanto che il Milan fu costretto a ritirare il premio negli spogliatoi.
Ma non finisce qui.
Si perché c’è anche una specie di maledizione che sembra avvolgere questa coppa. La storia più assurda riguarda quella della finale del 1967 tra Racing Club d’Avellaneda e Celtic Glasgow. Dopo l’1-0 scozzese in patria all’andata [davanti a 103.000 persone assiepate ad Hampden Park], con rete di McNeill, il ritorno si conclude 2-1 per l”Academia’, davanti ad un ‘Cilindro’ che contiene, ufficialmente 100.000 persone, grazie al rigore di Gemmell, ed alla rimonta argentina con le reti di Raffo e Cardebas.
Ai tempi non esisteva la cervellotica regola dei gol fuori casa che valgono doppio, così si deve giocare uno spareggio.
Visto il calendario corto di decide di fissare il match solo tre giorni dopo il ritorno, sempre in Sudamerica ovviamente, a Montevideo per l’esattezza.
Mentre il Racing, aiutato anche dal fattore campo, riesce ad aggiudicarsi la tanto agognata coppa, con un gol di Cardenas, a casa loro, ad Avellaneda, la leggenda vuole che un gruppo di tifosi dell’Independiente, l’odiato nemico che di quella coppa e di Libertadores farà letteralmente indigestione, si intrufolano dentro il ‘Cilindro’, la casa del Racing, e qui vi seppelliscono sette gatti neri, con l’augurio che quella coppa appena conquistata dall”Academia’, sia l’ultimo trofeo della sua storia.
Che ci crediate o no, la maledizione funziona: per 34 interminabili anni, fino ovvero al 2001, il Racing Club de Avellaneda, non vincerà più niente, mentre gli odiati cugini alzeranno invece centinaia di coppe.
Ma al Boca, quello del 1977, questo non importa.
Al diavolo le trasferte, la sfortuna od un calendario così ristretto da non permettere un viaggio agevole.
I ragazzi di Juan Carlos Lorenzo questa coppa la vogliono proprio vincere.
Purtroppo, o per fortuna, così non la pensano assolutamente quelli del Liverpool, che invece, della Intercontinentale, proprio non frega un bel niente.
Se ne pentiranno solo molti anni dopo, tanto che, i ‘reds’, con cinque Coppe Campioni in bacheca, non hanno mai vinto un trofeo intercontinentale.
Ecco allora che, così, come nel 1974 e nel 1973, sarà il vice campione europeo a giocare la finale: nel 1977, tale squadra era il Borussia Mönchengladbach.
Non fatevi ingannare dal fatto che avevano perso la finale di Roma.
I tedeschi erano un’ottima squadra.
Molto solida. Negli ultimi sette anni hanno vinto ben cinque a scudetti, una Coppa di Germania ed una Coppa Uefa, che tra l’altro vinceranno anche due anni dopo la notte italiana.
Tra le loro fila, giocava anche un certo Allan Rodenkam Simonsen, attaccante danese a dir poco sublime, tanto che quello stesso anno, nel 1977 appunto, vincerà anche il pallone d’oro, un riconoscimento che all’epoca andava ancora al migliore e non a chi invece decidevano giornali, giornalai e sponsor.
Simonses, come se non bastasse, è stato anche l’unico calciatore nella storia del fùtbol, a segnare nelle tre finali più importanti in ambito europeo: Coppa dei Campioni, Coppa UEFA e Coppa delle Coppe. Vista anche l’abolizione di quest’ultimo trofeo, il suo record rimarrà eterno e solitario per sempre.
No no.
Questi tedeschi sono forti.
E poi sono pur sempre tedeschi.
Campioni del mondo con la loro nazionale per due volte,
mentre gli argentini all’epoca non avevano vinto neanche un mondiale.
‘Cavolo, come li fermiamo?’ pensano alla Bombonera.
‘C’è un modo’ dice Don Lorenzo ‘Rafforzare la rosa’
Si, ma con chi?
‘Per questo non vi preoccupate. Ci penso io’ dice Juan Carlos.
Si perché da un annetto circa, il santone Sudamericano aveva messo gli occhi su un giocatore fantastico, uno dei più forti della sua generazione: tale Carlos Horacio Salinas, anch’egli chiamato ‘El Loco’.
Ecco, a questo punto della storia, vi devo confessare una cosa: prima, quando vi ho parlato di Gatti e vi ho detto che è stato l’unico che si è realmente guadagnato simile ‘soprannome’, e, come se non bastasse, è stato anche l’unico a cui i tifosi ‘bochensi’ hanno perdonato il passato ‘river platense’, vi ho mentito.
Si perché in realtà, Salinas, forse è andato oltre.
Anzi, senza il forse.
‘El Tucumano’, nato a Tucuman, terra di uomini granitici e di caratteri indomabili, nasce calcisticamente nel River, dove però, dopo la miseria di dodici partite e zero gol, decide di andarsene.
Carattere difficile ‘el Loco’ Salinas.
Approda al Chacarita Juniors, altra ennesima squadra di Buenos Aires, dove esplode definitivamente.
Difficile collocarlo tecnicamente e tatticamente: Salinas è delizioso, imprevedibile, puro come l’acqua di montagna.
Ha la stessa classe di Juan Román Riquelme ed il fisico di Martin Palermo.
Quando corre è eleganza allo stato puro e nulla più.
Ha un tocco di palla che crea orgasmi spontanei a chiunque lo ammiri.
Salinas inventa calcio.
Salinas è il calcio.
Il suo fisico gli permette di entrare come un treno nelle difese avversarie. La sua classe, fa il resto.
Don Lorenzo si innamora letteralmente di lui.
È lui, Horacio da Tucuman, l’uomo che può fare la differenza in Europa.
Il Boca lo acquista e con lui, gli ‘xeneizes’ diventano veramente imbattibili.
Purtroppo il suo carattere non farà si che la sua straordinaria poesia esca realmente mai fuori.
Questo era ‘Loco’ davvero: nel 1977 distrugge a pugni uno spasimante della sua futura moglie.
Il 5 novembre 1978 durante Huracan-Boca prende l’arbitro del match, tale Abel Gnecco, per il collo. L’AFA lo squalificherà venticinque giornate.
Tornato in campo, ben presto si fa riconoscere di nuovo. Durante una partita contro l’Estudiantes si fa impossessare dallo stesso spirito che una ventina d’anni dopo si prenderà la mente ed il corpo di Eric Cantona: si toglie uno scarpino e lo scaglia in piena faccia ad un tifoso del ‘pincha’ che gli stava urlando di tutto. Ne nasce una rissa furibonda che causerà qualcosa come 11 espulsi.
Nel 1980 il Boca lo userà come una delle pedine di scambio per arrivare ad un ragazzo che da qualche anno stava facendo impazzire di gioia lo stadio de ‘La Paternal’, casa dell’Argentinos Juniors: Diego Armando Maradona.
Di li a poco sarà la fine calcistica di Salinas: inizierà un lungo pellegrinare per tutto il Sudamerica, dove non mostrerà mai realmente il suo enorme talento. La leggenda narra che una volta, addirittura, quando indossava la maglia dei colombiano dell’Independiente di Medellin, scese in campo completamente ubriaco e sotto l’uso di qualche droga.
La fine.
Adesso se volete incontrarlo, basterà andare a Tucuman, tra i suoi barrios più poveri e chiedere di lui.
Qualcuno vi indicherà i bar dove adesso bazzica e dove racconta le gesta passate, come un vate, come un messia che narra di quando portò il Boca in cima al mondo.
1 agosto 1978.
Borussia Mönchengladbach – Boca Juniors.
Finale di ritorno. L’andata si era giocata a marzo, il 21 per l’esattezza, alla Bombonera e si era conclusa con il risultato di 2-2: tedeschi subito devastanti con l’uno-due micidiale di Hannes e Bonhof. Ma il Boca non ci sta e riesce ad riacciuffare il pareggio con Mastrangelo con il gol del pareggio finale di Ribolzi.
Gatti, Pernia, Tesare, Bordon, Suarez, Salinas, Sune, Zanabria, Mastrangelo, Saldao, Felman.
Quella sera, il Boca, viene lettarlamente preso per mano dai suoi due ‘Locos’, dai suoi due ‘pazzi’. Hugo Gatti è una saracinesca insormontabile che prende tutto ciò che passa dalla sua area. Para l’imparabile.
Quella notte diventa una vera e propria esperienza spirituale vederlo giocare.
‘È stata la miglior partita della mia vita’ dirà anni dopo.
Salinas invece..
Salinas è magia. È poesia.
I suoi dribbling sono così repentini che i tedeschi non lo prendono mai. Ma mai.
Con i suoi cambi di passo taglia in due la difesa dei verdi di Germania.
Il 3-0 lo mette a segno lui.
Il Boca è campione del mondo. Il Boca è lassù, in cima al calcio mondiale. Grazie a Don Lorenzo, a Hugo Gatti. Grazie a Horacio Salinas ed anche ad Alexander Govan.
Grazie agli ‘Dei’ che a ‘La Boca’ si sono sempre aggraziati e grazie anche al Cruzeiro, eroe l’anno prima contro il River a Santiago e vittima quell’anno a Montevideo.
Il Boca vincerà anche l’edizione successiva della Libertadores, quella del 1978.
Stavolta senza neanche patemi d’animo o la necessità di ricorrere ai maledetti rigori.
0-2 in semifinale al Monumental, dopo lo 0-0 della Bombonera, 0-0 in finale a Cali contro l’America e 4-0 a Buenos Aires con gol di Mastrangelo, Salinas e doppietta di Hugo Perotti, quest’ultimo prelevato dalle giovanili quello stesso anno e diventato immediatamente insostituibile per Lorenzo.
Carattere molto particolare anche questo.
La sua storia inizia alla vigilia di una partita di campionato molto importante, quando si infortuna il cardine dell’attacco, Luis Felman.
Don Lorenzo, disperato, chiama subito Luis Grandulla, responsabile del settore giovanili bochense e gli dice ‘Mandami subito qualcuno in grado di sostituire quel toro di Felman’.
‘Tranquillo ce l’ho io’, dice Grondulla.
Il giorno dopo si presenta alla Bombonera Osmar Hugo Perrotti, un ragazzo di appena 19 anni, magro e alto al massimo 1,70.
Lorenzo lo guarda e dentro di se dice ‘Ma chi diavolo mi ha mandato quel ‘hijo de puta’ di Grondulla’.
Vabbe. Proviamolo.
Chiama da una parte il capitano, ‘El Tano’ Pernia e gli ordina ‘Con questo, gioca duro ‘Tano’. Deve farsi le ossa. Non ti preoccupare se piagnucola. Tu fagli assaggiare i tacchetti’.
‘Nessun problema Don’ risponde Pernia.
Prima azione della partitella, palla sulla fascia, Pernia tenta un entrataccia, Perotti lo schiva e con una spinta lo fa carambolare contro i cartelloni pubblicitari a bordo campo.
In campo scende il silenzio più totale.
Si possano sentire i pensieri di Lorenzo, l’affanno di Perotti e persino una risata beffarda del ‘Loco’ Gatti.
Vilipendio. Sacrilegio.
Come ti puoi permettere di fare una cosa del genere al capitano del grande Boca, la squadra in quel momento più forte del continente, il primo capitano ad alzare Libertadores ed Intercontinentale con quella maglia?
Pernia si alza con un taglio vistoso sotto il sopracciglio e si scaraventa contro Perotti, ma Lorenzo, che aveva intuito ciò che stava per accadere, è più svelto di lui, si frappone tra i due, prende Pernia, lo calma e gli dice ‘Tano, questo domenica gioca titolare’.
Pernia lo fissa, e per tutta la partita lo ignora, o almeno cerca, proprio come voleva il suo allenatore.
La leggenda vuole che dopo, negli spogliatoi, avrà comunque modo di farsi vendetta, aiutato anche da qualche fido scagnozzo.
Perotti giocherà sulla cresta dell’onda per 5-6 anni soltanto, tanto che a 25 anni verrà già considerato un ex giocatore per via della quantità industriale di sigarette che fumava durante il giorno.
Dettagli di un tempo immortale.
Mentre il Boca conquista per la seconda volta il SudAmerica, anche il Liverpool fa lo stesso con l’Europa, e anche stavolta i ‘reds’, decidono di snobbare l’Intercontinentale. Anche il Boca fa lo stesso.
Adesso dopo qualcosa come 36 anni, sembra che i due club si siano messi d’accordo per disputare finalmente questa benedetta finale, a giugno dell’anno prossimo, in Sudafrica.
Mi piace immaginare che a questa partita vorranno partecipare a tutti i costi sia ‘el Loco’ Gatti che Horacio Salinas.
In su con l’età ma ancora dannatamente strepitosi.
Ancora pazzi fino al midollo.
Uomini veri.
‘Hombres de Bica’.
Leggendari.
Uomini straordinari vissuti in un tempo straordinario.
Irripetibile.
Principi che hanno svegliato la loro Regina dal sonno che la avvolgeva e l’hanno fatta salire sul gradino più alto del mondo.
Quello che gli spetta.
Quello che nessuno gli toglierà mai.
Quello che una manica di matti rese possibile anni fa.
Se le leggende non fossero sognatori fuori di testa, non permetterebbero a chi li ama di sognare a sua volta.
Perché come disse una volta Hugo ‘El Loco’ Gatti ‘Abbiamo vinto la Libertadores, ma questo non è che l’inizio. Stanotte berremmo l’impossibile, e domani saremo ancora più forti.
Sempre per questa maglia. Sempre per questo stemma. Quello che ho sul cuore e che nessun cardiologo potrà mai vedere. Solo Dio. Solo lui può capire’.
Solo lui e chi è ancora più pazzo di te, Hugo.
Solo lui e tutti quelli che, come noi, di sognare come bambini, proprio non vogliano smettere mai.
Quelli che ringrazieranno per l’eternità il cielo, per aver donato alla terra uno come ‘el Loco’ Gatti e la sua incredibile manica di matti.
Per avere creato tali emozioni.
Tali uomini.
Tale amore.
È il Boca.
È religione.
È un’esperienza mistica che si prova pur non entrando mai in nessuna chiesa.
È la metafora di un vita intera.
È semplicemente il fùtbol con le sue gioie, i suoi dolori, il suo inferno che ti porta in Paradiso..
E nulla più.

1: http://m.youtube.com/watch?v=Dt9Udao7ItU

2: http://m.youtube.com/watch?v=Te6v-vN8_0I

Il maestro Vuja..

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Ci sono filosofi che non hanno studiato in chissà quale università o scuola prestigiosa.
Ci sono poeti che non hanno bisogno di libri per essere ricordati.
Ci sono maestri che insegnano più quando sono in tuta e scarpe da ginnastica, che dietro una cattedra tutti bello tirati a lucido.
Vujadin Boškov è stato un profeta. Un professore di vita prima che di calcio. Amato da tutti. Da tutti imitato. Spiritoso, sanguigno. Pacato e pieno di fuoco, un maestro zen proveniente proveniente non dall’Oriente, ma da
Vojvodina, una città non certo famosa per i suoi paesaggi esotici.
Allenatore vincente e geniale, si è seduto in tante panchine ed ha rapito milioni di cuori.
Feyenoord, Real Madrid, Sampdoria, Servette, Real Saragozza, Napoli, Roma, Ascoli.
Memorabili alcune sue frasi diventate leggende ‘Rigore è quando arbitro fischia’ ‘Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello’ riferito ad un giornalista che prevedeva la retrocessione del Napoli, ‘Chi ha sbagliato, Pagliuca?’ frase ripresa poi dalla Gialappa’s Band, fino alla famosa frase sull’uruguaiano del Genoa Josè Perdomo ‘Io non dire che Perdomo giocare come mio cane. Io dire che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane’.
Se ne va un mito. Un maestro. Un cuore fatto da ironia sana e sapienza tattica. Se ne va un grande uomo. Un signore allenatore.
Oggi che il calcio ha tremendamente bisogno di gente così, purtroppo genete così, non ce ne più. Tutto il calcio oggi piange
Vujadin Boškov, forse anche Josè Perdomo, quello che ‘giocava no come cane, ma al massimo in sua villa con su cane’.

#RipVuja

‘Keep calm and pass to Scholes’. Paul, il migliore della sua generazione..

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‘E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è l’Orsa Maggiore?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty’.
Ecco come finisce l’ultima meravigliosa, straziante, bellissima pagina con cui l’immenso Jack Kerouac decise di terminare il suo capolavoro ‘On the Road’, ‘Sulla Strada’.
Ecco come, così, egli, aveva deciso di concludere questa sua immensa opera d’arte, immortale alla polvere ed al tempo che passa. Eterna come il suo nome e l’immensa poesia che nasconde dentro di essa.
Testamento straordinario, straziante e decadente di una generazione allo sbando, completamente fuori controllo. Di un ammasso di ragazzi, e ragazze, bruciati, persi per sempre, morti ancor prima di nascere e vivi ancor prima di vivere, con le suole
delle scarpe piene zeppe di buchi a suon di portare l’acceleratore al massimo. Solo e soltanto per provare che effetto fa accarezzare in faccia la morte.
Ragazzi e ragazze che ardevano così lentamente da emanare profumo di incenso, da emanare una luce incredibile, esattamente come fanno le meravigliose candele romane. Ragazzi resi cenere e cosparsi tra le stelle per non tornare più. Un popolo perso per sempre, perso nella disperata ricerca di ritrovare se stesso. Di capire il mondo e cosa si cela veramente dietro i suoi angoli appuntiti.
La chiamavano ‘beat generation’, e, forse, altro non era che gruppo di ragazzi con un disperato bisogno d’aiuto, un’accozzaglia di figli orfani in cerca di consigli e belle parole o solo, alla fine, semplicemente di un tenero abbraccio in cui sprofondare, un abbraccio che li facesse sentire importanti ed al sicuro nel bel mezzo di una tempesta difficile da domare.
Non smetterò mai di ringraziare fino in fondo Jack Kerouac per averci donato un simile testo. Un simile capolavoro non molto apprezzato. Ma capolavoro vero.
Una Bibbia profana da cui attingere perfette preghiere da non seguire. Un testo sacro per chi sacro non è.
Non so se Jim Morrison, James Dean, Èric Cantona, George Best od altri maledetti dei nostri tempi abbiano mai letto questo libro. Non lo so. Ma sicuramente loro vivevano come se ne fossero i protagonisti. Come se non ci fosse un domani perché l’oggi è troppo breve per preoccuparsi.
Ecco, dovete sapere che ogni tanto, io, appena posso, mi prendo qualche minuto per leggere fino a fondo quest’ultima pagina. Come se fosse la prima volta. Come se non lo avessi mai fatto, nel tentativo di riscoprire di nuovo questa stupenda meraviglia su carta, così struggente, così coinvolgente che lascia in me, sempre, e dico sempre, un tale senso di vuoto e speranza, di pienezza e rassegnazione che, ogni qualvolta finisco la lettura, mi sento proprio una persona migliore.
Malinconica ma migliore.
D’altronde Rimbaud diceva che ‘la malinconia è l’unica cosa di cui l’anima ha bisogno’, quindi non penso proprio che tuffarmi di tanto in tanto in questa pagina sia proprio una cattiva idea.
Ecco, dovete sapere, anche, per onestá, che la stessa, identica, medesima sensazione appena descrittavi, io la provo anche in un’altra circostanza. Così lontana e differente che non sembra avere nessun collegamento con questa, eppure, capace di suscitare in me la stessa reazione. La stessa tristezza.
Quando, posato delicatamente il mio libro sul tavolo, penso ad un determinato momento calcistico, ormai andato per sempre, io mi struggo esattamente come quando leggo quella meravigliosa pagina.
Quando ripenso al calcio a cavallo tra metà anni ’90 e metà anni 2000, io, semplicemente, muoio.
Si perché per me è stato il primo calcio in assoluto, il primo che ho realmente conosciuto, il primo vero calcio che ho vissuto veramente. Che ho avuto la fortuna di gustare ed assaporare. Forse il più bello di sempre. Sicuramente l’ultimo vero calcio a cui il mondo ha assistito.
Poi stop.
Non me ne vogliano gli eroi moderni di questo strepitoso sport, i Messi od i Cristiano Ronaldo di oggi, sicuramente tra i migliori di sempre, senza ombra di dubbio, ma il mio discorso è più generale, va oltre il singolo o la leggenda resa persona, va oltre un determinato numero di titoli: il mio pensiero semplicemente si strugge perché purtroppo sa che, quel calcio così romantico e malinconico, dove i soldi convivevano con il pallone, e non lo domavano, un calcio così bello e decadente da sembrare una poesia narrata da chissá quale ubriacone illuminato e letterato, ahimè, non tornerà più. Un football straordinario fatto da uomini straordinari. Icone e leggende che adesso, proprio, eccetto rarissime eccezioni, non ci sono più e mai più ci saranno.
Gente come Giggs, Batistuta, Ronaldo [ il fenomeno ], George Weah, Zidane, Emerson. Eroi e guerrieri contemporanei come Barthez, Litmanen, Roberto Carlos, Ginola, Zenden, Petit, Juninho. Poeti del calcio come Rivaldo, Del Piero, il primo Totti o Gianfranco Zola. Giocatori straordinari, gladiatori in calzettoni come Lothar Matthaus, Diego Pablo Simeone, Edgar Davids, non calcheranno più i campi di calcio. Giocatori come Paul Scholes, purtroppo, non nasceranno più.
Cazzo, si, avete capito bene: Paul Scholes.
Il genio.
Il mostruoso Paul Scholes
Giocatore magnifico ed infinito. Abbagliante ed eterno.
Calciatore vero, nato solo e soltanto per fare una ed una sola cosa: giocare a calcio e nulla più. Mai una polemica. Mai una parola di troppo o una grana in uno spogliatoio, come quello dei ‘red devils’, dove non serviva onestamente molto per far scoppiare una vera e propria guerra civile.
Che giocatore era quel piccoletto dai capelli rossi nato a Sadford, Great Manchester, nel lontano 1974.
Fantastico. Sublime. Magnifico.
Mai una giocata banale, un tocco di tropo od un dribbling inutile.
Paul Scholes, un membro della ‘beat generation’ calcistica. Uno dei personaggi di spicco di quel popolo ormai andato. Ormai sparito. Estinto proprio come gli antichi greci o gli egizi delle piramidi.
Uno di quell’uomini ed atleti che, sicuramente, non ne nasceranno più. Mai più. Godete di memoria, perché il futuro non vi mostrerà altri tramonti del genere.
Quelli si che erano calciatori: incredibili e stupendi, con quella loro semplicità così genuina e naturale che chiunque, anche il più scarpone del mondo, nel vederli, avrebbe detto ‘Anch’io posso farlo. Anch’io posso riuscirci. Esattamente così. In maniera semplice’.
Ma il calcio non è affatto semplice. No.
È gente come Scholes che lo fa sembrare tale.
Giocatore meraviglioso e dotato di un tale carisma da fare paura.
Persona unica, Paul.
Prima di tutto uomo, e poi talento incredibile che lasciava chiunque a bocca aperta ogni qualvolta calcava il manto sacro e regale di Old Trafford.
Motorino infallibile di centrocampo, mastino assetato di palloni. Sempre pulito, sempre candido. Sempre elegante come uno smoking indossato per l’occasione ‘Scholes è così perfetto e signorile che potrebbe vestirsi di bianco ad ogni partita e non ne uscirebbe mai sporco’ disse una volta di lui David Beckham.
Mai una giocata scorretta od un’entrataccia infame e meschina. Mai una miserabile rissa od una testata a palla lontana.
Mai.
Si perché Paul Scholes non ne aveva bisogno. Non aveva necessità di rincorrere l’avversario e di stenderlo prima che questi fosse entrato in area o magari di fargliela pagare con chissà quale vigliaccata.
No.
A scholes bastava la sua immensa classe. Faceva parlare lei, solo lei e nient’altro. Prima arrivava lui, e poi la palla. Troppo raffinato ed aristocratico per scendere a simili volgarità. Troppo importante per farsi ammonire od espellere, e mancare,
magaru, così nella prossima battaglia, nella prossima mischia in cui avrebbe sputato ancora sangue e saliva come se me avesse all’infinito. Cuore ed onore.
No. Lui doveva essere presente nella successiva guerra sportiva dove giocatori così come lui sono come l’acqua nel deserto più arido. Sono pane per chi non ha niente da mangiare. Sono la chiave che ti apre una partita. L’apriscatole che scardina una difesa ermetica. Il raggio di sole che buca caparbiamente una nuovola ostile. Il regista che risolve una partita. Che te la fa vincere. Che te la fa salate per aria esattamente come il caveau di una banca duro ad arrendersi.
Paul Scholes, nominato dalla sua gente, la Stetford End, ‘the silent hero’, l’eroe silenzioso.
Si perché di lui non ti accorgevi mai.
Quasi non percepivi la sua presenza quando c’era, tanto che molte volte veniva da chiedersi ‘Ma Scholes é in campo?’. Si lui c’era. Silenzioso ed impeccabile, a rubare palloni scottanti ed ad impostare azioni letali. Velenose. Lui non si vedeva, ma c’era. C’è sempre stato.
Esatto. Sempre.
Si perché quando invece non era presente al match, vuoi per un infortunio, vuoi per una [rarissima] squalifica, la sua assenza era un danno tremendo, una tremenda tragedia per la squadra di Sir Alex.
La sua squadra.
La sua maglia.
Quella che ha indossato per ventitré lunghissimi, meravigliosi anni. Senza mai tradirla. Senza mai abbandonarla per un conto corrente più allettante od una sbandata del momento. Per una piazza più mondana o uno stadio più ‘fashion’, magari poi pentendosene solo dodici mesi dopo.
No.
Non Paul Scholes. Non lui. Fedele come un cane lo è col suo padrone.
Paul Scholes, l’eroe silenzioso ed umile. Tenace ed impeccabile.
Sempre fedele. Sempre innamorato di quella maglia e di quella gente esattamente come la prima volta che la indossò, come la prima volta che fece parte del Manchester United, quel lontano 1991. Altroché soldi. Altro che sponsor.
Ha sempre servito i suoi colori senza chiedere niente in cambio. Senza esitare neanche un secondo, senza fare stupidi paragoni con i compagni ed i loro stipendi.
Un giorno, quando l’ex presidente dell’Inter, Massimo Moratti, bussò alla sua porta, chiedendogli che cifra sarebbe servita per strapparlo allo United, lui, il piccolo enorme gladiatore rosso, sorridendo, rispose cordialmente ‘Sono onorato del suo interesse, presidente. Ma io non me ne vado da qua. Se mi vuole veramente a Milano, deve comprare l’intera squadra. L’intero Manchester United. Perché io non me ne andrò mai da qui’.
Brividi. Classe infinita di chi classe ne ha sempre avuta. Parole di un uomo vero che non mette le sterline o gli interessi davanti a sè. No.
Per lui sono importanti ben altre cose. È importante la gratitudine, l’amore e l’attaccamento. Per uno così è importante la squadra e non il taglio di capelli. È importante il traguardo collettivo e non ciò che una giocata individuale può suscitare verso pubblictari o ragazzine.
Non Paul Scholes.
Per quanto voi vi sforziate a cercare in lungo ed in largo una sola, e ripeto una sola, frase negativa e denigrante nei suoi confronti, beh, mi dispiace deludervi, ma ne uscirete sconfitti.
Si perché Scholes non ha mai dato modo a nessuno di parlar male di se.
Neanche agli avversari. Neanche a chi nella mischia con lui, di lui era il nemico, il centrocampista che difendeva un’altra maglia e che a suon di spallate cercava, invano, di acciuffare quel maledetto pallone.
Non si può parlare male di uno così. Sempre leale. Sempre impeccabile. Sempre dannatamente perfetto in ogni intervento. In ogni parola. in ogni azione. E non solo. Si perché egli non era solo grinta e cuore. Palle ed onore.
No. Aveva anche altre armi.
Paul era un fenomeno anche con i piedi.
Già. Altro che il mito del medianaccio tutto muscoli e zero classe. Tutto carattere e niente tocco vellutato.
No. Niente affatto.
Anzi.
L’eroe silenzioso aveva dei piedi magici, fatati. Piedi che abbagliavano chiunque li guardasse. Puntuali come un orologio svizzero e letali come un cobra reale. Magici. Quasi irreali. Con quel suo piede destro disegnava da oltre la linea di metà campo dei lanci così perfetti che i compagni non dovevano far altro che alzare a malapena la gamba e stoppare il pallone.
Scholes scovava maglie rosse dove maglie rosse non c’erano. Vedeva colori amici dove solo il futuro avrebbe predetto che sarebbero passassati di lì nel giro di qualche secondo. Prevedeva prima di vedere.
Disegnava, Paul Scholes. Pitturava, Paul Scholes. Il suo non era calcio. Era magia. Era arte raffinata e rarefatta per i palati più comuni. Per tutti. Non cercava la grande platea Paul. Lo faceva solo e soltanto per la sua gente.
Così fenomeno da far passare un pallone dove nessuno non solo provava, ma neanche immaginava di farlo passare. Nessuno. Neanche i tanto acclamati numeri dieci di quei tempi. Quelli veri. Quelli immortali e leggendari. Non come oggi. 
Non come adesso, dove il numero dieci viene dato a porci e cani. A portieri e terzini. No.
Neanche loro, i ‘profeti della pelota’, riuscivano in tanto. Osavano tanto. Si inoltravano in simili giocate.
Nessuno.
Tranne lui, Paul Scholes.
‘Scholes è stato il più forte con cui ho giocato contro’, raccontò una volta Zinedine Zidane.
‘Quando penso ad un centrocampista penso a Scholes e nessun altro’ disse una volta Andrea Pirlo.
Chiamarli complimenti, forse, è un po’ riduttivo.
Paul, il mediano dal piede magico. ‘Se solo Scholes avesse avuto un po’ meno cuore, avrebbe potuto fare benissimo il trequartista. Ma sinceramente, con una simile grinta, con una simile corsa, con una cazzo così di voglia di spaccare tutto e tutti ed il mondo intero, penso che li sarebbe stato sprecato’, così disse di lui un giorno il suo creatore, Sir Alex Ferguson.
Come dargli torto. Come rendersi colpevoli di balsfemia ed insinuare ‘No, mister, lei si sbaglia’.
No. Affatto. Ferguson non si sbaglia. Ferguson non si sbaglia mai. E stavolta ancora meno. È grazie a lui ed alla sua intuizione se il mondo ha potuto conoscere e gioire di uno dei registi calcistici più forti di sempre. Uno dei professionisti più impeccabili e rispettosi che non solo il calcio, ma direi anche lo sport in generale, abbia mai avuto l’onore di avere.
Perché aver visto giocare Paul Scholes, non può essere che un onore.
Come può essere altrimenti. Come può non essere così.  ‘Quando penso al calcio io penso a Paul Scholes’ disse un giorno un giovane Don Andrès Iniesta, uno che non chiamano ‘l’illusionista’ per niente.
Chiunque di noi abbia avuto la fortuna di vederlo giocare, anche solo per pochi minuti, deve sentirsi orgoglioso di aver conosciuto un uomo del genere, un professionista così, uno che per amore del ‘football’ e di quella palla di cuoio è andato contro tutto e tutti. Contro non una, ma ben due malattie che con il calcio non vanno proprio un cazzo d’accordo. No.
Due malattie che avrebbero annientato chiunque. Avrebbero preso a calci nei coglioni anche il più muscoloso dei supereroi. Chiunque avrebbero abbattuto, ma non lui. Non il fragile bambino dai capelli rossi malato di diabete ed asma, che, fregandosene altamente, e spinto da una voglia immane di giocare, il bambino che pur di inseguire quel sogno che un giorno, fortunatamente, raggiungerà, decide di combattere e lottare esattamente come faceva in campo: ecco che, allora, prima di ogni partita l’eroe silenzioso si auto-praticava delle iniezioni di insulina e faceva massicce sedute di aerosol, per sconfiggere i suoi demoni, per impedire a quelle due bastarde maledette di averla vinta contro di lui. Contro la sua voglia di dimostrare che ce l’avrebbe fatta.
E c’è riuscito. Ha vinto. Per se stesso e per tutti noi, amanti del calcio, per noi, la generazione fortunata che un giorno griderá al mondo e dirà orgogliosamente ai propri nipoti ‘Ho visto giocare Paul Scholes’.
Colui che pensava dannatamente semplice, che giocava facile proprio come un suo compagno di squadra, altro mostro sacro di questo sport, tale Ryan Giggs.
Così semplici da far sembrare tutto quello che facevano, quasi, uno scherzo a noi comuni mortali, noi che non capivano che era proprio quella semplicità a rendere tutto mostruosamente complicato.
Si perché nel calcio non c’è cosa più difficile di giocare facile.
Non per loro due però, non per lui. Il genio, o ‘genius’, altro soprannome della Stretford End, dai capelli rossi.
Paul Scholes.
Colui che non gioca la palla, ma la seduce. La accarezza, la tratta male e poi la domina. Fa l’amore, scherza con lei come a dirgli ‘Non ti farò mai del male. Io ti amo’, e poi la indirizzava chissà dove.
Paul sembrava non toccarlo neanche quel benedetto pallone. Sembrava che esso partisse un secondo prima del suo tocco, come se un sortilegio muovesse quel pezzo di cuoio pieno d’aria ancor prima che il tutto si compiesse, come se il destino sapesse già prima ciò che Scholes, invece, sapeva da sempre. Dove mettere la palla. La soluzione più facile ed utile per aiutare il Manchester United ed il suo popolo.
Roy Keane, non proprio uno molto incline ai complimenti, disse di lui una volta ‘Non concepisco una squadra senza Scholes. Non so come facciano gli altri allenatori del mondo a giocare senza un giocatore del genere. Eccezionale. Intelligentissimo. Uno dei più forti che questo dannato paese [da buon cuore irlandese si riferiva così, ovviamente, all’Inghilterra] ha mai avuto. Se i miei compagni di squadra fossero stati tutti come lui, penso proprio che in vita mia mi sarei incazzato molto meno’.
Investitura vera e propria.
Gladiatori moderni che si scambiavano, a loro modo, complimenti e riconoscenze.
Giuste parole per un calciatore straordinario.
Si dice che dal 1991 fino al 2013, anno del suo ritiro, non ci sia stata neanche un’azione del Manchester United che non sia passata dai piedi di Paul Scholes. Difficile non credere a questa leggenda neanche tanto metropolitana.
Niente è impossibile quando si parla di un calciatore così, di quelli veri, di quelli che non torneranno più mentre i tifosi, invece, si struggono nel ricordarli e piangono sapendo che il calcio non avrà mai più personaggi del genere. Semplici e bellissimi.
Mai un isterismo inutile. Mai una gelosia idiota che metteva il suo ‘io’ prima del collettivo. Ha sempre pensato alla squadra, Paul. Non si vergognava a fare una sponda ad un compagno meglio piazzato di lui. Non si incaponiva mai in dribbling superflui e nocivi, inutili e rischiosi. Non commetteva mai errori banali per dimostrare chissà che. No. Mai. Non lui. Paul Scholes. Umile e generoso, intelligente e poetico. E poi vabbe.. fenomeno nel gioco del calcio. Nell’accarezzare educatamente il pallone. Di dargli del tu come i veri maestri del ‘fútbol’ sanno fare. Queste sono cose che non insegna nessuna scuola calcistica. O c’è l’hai nel sangue, o sei fottuto.
O sei nato con una simile classe ed eleganza, od è meglio che ti inzi a cercare un altro lavoro.
Perché Paul Scholes non si diventa. Si nasce.
Sapete, ci fu una partita in particolare in cui, io, mi innamorai veramente di questo giocatore straordinario per la prima volta. La ricordo ancora come se si fosse giocata ieri sera.
19 aprile 2000.
Semifinali di Champions League Manchester United – Real Madrid.
Quella sera, mentre tutto il mondo si innamorava, giustamente, della strepitosa giocata di Fernando Redondo, io mi innamoravo di Paul Scholes, l’uomo che quell’incredibile ‘tacazo’ dell’argentino lo subì, senza fare drammi, perché non è un disonore cadere. No. La vergogna è abbatersi senza combattere, è non rialzarsi e cercare la rinvicita, non dare tutto fino in fondo.
Scholes non é uno di questo. Lui subisce, incassa, si rialza e torna, se possibile, più forte di prima. Come quella sera. Come in quella semifinale che il Manchester stava perdendo malamente per 3-1 fino a due minuti dalla fine, quando i ‘red devils’ guadagnano un rigore. Troppo tardi. Troppo. Dopo lo 0-0 dell’andata al Bernabeu, adesso servirebbero tre gol per passare. Troppo. Troppo, ma non per lui.
Scholes si presenta sul dischetto con la rabbia di chi non ci sta. Con la consapevolezza di rappresentare un popolo intero. Una marea di gente che in lui crede ed in lui confida. La sua gente.
Paul parte. Destro secco, potentissimo, meraviglioso sotto la traversa. Palla dalla parte destra, Casillas da quella sinistra. 3-2.
Paul corre verso il pallone. Anche i ‘blancos’ lo fanno. Ne nasce un piccolo battibecco con Roberto Carlos. Poi Paul prende la palla e torna verso il centrocampo, ed è proprio in quel momento, che io, mi innamoro di lui: Paul si gira verso i compagni e con un’aria quasi provocatoria chiede loro ‘Ci proviamo?’.
‘Si’ rispondo loro. Il Manchester risorge improvvisamente dalle ceneri. Lo United è ancora vivo.
Si cazzo ! Due minuti dalla fine. Due gol da recuperare. Sarebbe più facile andare all’inferno e tornare con la testa del diavolo, piuttosto che segnare due reti alla ‘merengues’ [che poi vinceranno quella edizione]. Sarebbe più facile qualunque cosa in questo mondo. Ma non quella. No.
Però perché non provarci. Che cosa c’è da perdere? Che cosa? Perché non provarci davvero? Da squadra ! Da eroi. È solo calcio. Non fa male.
Perché no ?
Il Manchester non riuscì nell’impresa, ma questi, sono dettagli.
Si perché quella sera, lui, Paul Scholes, diventò condottiero della mia anima così come lo era del centrocampo della sua squadra e del suo stadio. Si impadronì del mio cuore. Un cuore rosso come i suoi capelli, rosso il suo sangue, rosso come quella meravigliosa maglia che ha indossato per ventitré meravigliosi e lunghissimi anni.
Rosso come gli occhi quando la sua squadra era in svantaggio quella sera. Rosso come il cielo l’anno prima quando lo United vinse nella notte di Barcellona una delle Champions League più pazze di sempre.
Scholes avrà modo di rifarsi dopo quella scottante serata del 2000.
Esattamente otto anni dopo segnerà ancora ad una spagnola, il Barcellona questa volta, una rete molto più importante.
Paul sará giustiziere dei blaugrana con un tremendo missile di collo esterno un paio di metri fuori dall’area. Un siluro. Un capolavoro balistico che andrebbe clonato e messo in qualche museo della fisica.
Perfetto. Meraviglioso come l’intervento ad intercettare palla sul disimpegno errato di Zambrotta.
1-0 e United in finale. Di nuovo. Di nuovo campione di una Coppa che i ‘diavoli rossi’ hanno nel proprio DNA.
Di nuovo grazie a lui. Esattamente come nove anni prima.
Altri erori stavolta. Altri condottieri. Altri compagni accanto. Di certi, solo e soltanto lui è Ryan Giggs. Leggende eterne di un calcio senza età.
Gente unica.
Gente così speciale da impressionare anche chi non è facilmente impressionabile.
Cristiano Ronaldo, compagno di squadra di Scholes in quella stupenda cavalcata del 2008, una volta raccontò approposito del soldatino dai capelli rossi ‘Ero in allenamento e stavo facendo dei giochetti. Dei numeri. Ad un tratto si avvicinò a me Scholes e mi disse ‘Vedi quell’albero laggiù? Se vuoi lo colpisco’ ‘Impossibile’ rispondo io ‘Sará ad almeno cinquanta metri’.
Paul parte ed alla prima capisce in pieno l’albero nel bel mezzo del tronco. Io rimango a bocca aperta. Lui mi dice ‘Provaci tu adesso’.
Su venti tiri non riuscì a beccare quel dannato albero neanche una volta’.
C’è poco da aggiungere ad una testimonianza così. Ad una carriera così. Perfetta. Ineccepibile. Impeccabile. Meravigliosa.
La carriera di un giocatore perfetto che non ha lasciato eredi calcistici. La vita stupenda di un uomo stupendo che adesso, insieme all’amico gallese, ha intrapreso una nuova avventura. Diversa ma allo stesso tempo meravigliosa ‘Quando uscivo dagli allenamenti andavo a prendere i miei figli a scuola e poi la sera me ne stavo con mia moglie. Tutto qui’.
Paul Scholes.
Uno delle più grandi scoperte del mago scozzese Alex Ferguson. Uno dei più grandi rimpianti che aleggiano su Old Trafgord. Se fuori lo stadio vendono ancora le maglie con su scritto ‘Keep calm and pass to Scholes’, un motivo ci sarà.
Forse è nostalgia.
Forse è malinconia. Forse è la magia che usciva da quei due meravigliosi piedi.
Giocatori così non ne faranno più. Se potete, clonate Paul Scholes. Clonate la classe del ’92. Vi prego. Vi scongiuro.
‘Quando sarà finita vorrei guardarmi allo specchio e dire ‘Sei stato un calciatore semi-decedente’.
Tranquillo, Paul. Non sei stato affatto semi-decente.
Sei stato semplicemente, uno dei più grandi di sempre.
Uno di quelli che non torneranno più. Uno di quelli che il cuore piange ormai da troppo tempo. Uno di quelli talmente forti che, esattamente come i campioni, neanche ti accorgevi che ci fosse, fino a che non spaccava in due la partita.
Uno di quelli così unici che non avevano nè un ruolo preciso nè una perfetta collocazione.
Per desriverlo, per cercare di inquadrarlo realmente, servivano soltanto due semplici, umili parole. Meravigliose ed eterne. Due parole che, purtroppo, il calcio non accarezzerà più. Due parole immortali. Leggendarie. Due parole che pressapoco recitavano così: Paul Scholes.
ll più forte mediano della sua generazione. La generazione che non tornerà più. La generazione dei campioni. La generazione dei dannati.
La generazione dei più forti. La generazione del ‘mantieni la calma, e passala a Paul Scholes’..

Penso che ogni parola, alla fine, sia riduttiva per descrivere un simile giocatore. Per questo vi chiedo di impegnare solo 10 min della vostra vita per vedere questo video meraviglios.
I migliori 600 secondi della vostra esistenza:

1: http://m.youtube.com/watch?v=Ggu9d4xlTFo

Grazie Tito..

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Anche Dio sbaglia, sai?
Anche lui è fragile e delle notti piange, solo. Vorrebbe circondarsi di persone splendide e fantastiche, perché lassù gli angeli sono sempre in viaggio, e lui non ha nessuno con cui sorridere.
Non te la prendere Tito se questa volta ha scelto te, ti prego. Ma so che non lo farai, perché se una cosa c’hai insegnato, è quella di non prendersela mai veramente, di sorridere anche quando non ce proprio un bel niente da sorridere, e gioire anche quando la vita ti mette di fronte un mostro così meschino che con il suo solo nome incute timore e paura anche ai cuori più forti. Anche a quelli più buoni, proprio come il tuo, che mai si è arreso, neanche adesso, tanto che mi piace immaginare che, forse, è uscito di scena con un bel sorriso stampato sopra, proprio come la tua bocca c’ha sempre regalato ogni qualvolta ti vedevamo.
Sai Tito, la terra forse non ti meritava. Lo so, facile a dirsi, difficile a farsi. Chi se ne va non c’è più, mentre chi rimane piange giusto un paio di giorni e poi dimentica.
Ma io ti giuro che così non sarà. Così non andrà, stavolta. Te lo prometto. Non succederà. No. Non te lo meriti. Affatto.
Anzi.
Se proprio qualcuno non doveva andarsene da questo mondo, quello eri tu.
45 anni sono un battito di ciglia. Uno scherzo in confronto all’eternità.
Eppure, in un lasso di tempo così ristretto, ed in poche partite, hai dimostrato molto più di chi invece questa terra l’ha calpestata per molto più tempo: non ti sei mai lamentato, hai sempre combattuto come un guerriero silenzioso, e se piangevi, ci volevi così bene da asciugarti le lacrime prima di farti vedere da noi, così che non ci sentivamo tristi per te. Per non farti compatire da noi. Ammiratori segreti e non.
Si perché non c’era niente da compatire in te. No. C’era, anzi, c’è, perchè tu sei sempre qua tra noi, solo da imparare. Imparare a sorridere anche quando non ci va. Imparare a capire che in questa merda di vita i problemi sono ben altri che le stronzate di cui ci lamentiamo ogni giorno. Delle enormi cazzate che ci sembrano chissà quali scogli insormontabili.
Grazie.
Grazie Tito. Grazie davvero. Da un miliardo di cuori così grandi da poterti portare tutto intero dentro di loro.
Felici di aver conosciuto una persona come te.
Un maestro come te. Un uomo di fùtbol come te.
Si perchè devi sapere Tito che anche se la palla è tonda per tutti, solo in pochi, in realtà, sanno farla rotolare davvero. Tu ed i tuoi ragazzi eravate questi ‘pochi’. Eravate la poesia in un mondo di banalità. Eravate eroi. Tu lo eri e sempre lo sarai.
Grazie Tito. Per averci insegnato più di ciò che ci meritiamo. Per unirci adesso in una passione comune, mentre i colori ci dividono ogni maledetto giorno, ogni maledetta domenica.
Ma è il calcio, è fatto così. E lo sai meglio di me.
Purtroppo anche Dio sbaglia. Anche lui è fragile, e quel fantastico sorriso che hai sempre portato con te, non può che averlo rapito.
Come dargli torto ? Come non amare una persona meravigliosa come Tito Vilanova ?
Impossibile. Impossibile. Impossibile proprio come credere che tu non ci sarai più..
Grazie Tito. Grazie per sempre. È una promessa..
Ti giuro che il tuo ricordo non sarà mai così lontano da non strapparci un sorriso ogni volta che ritornerai nella nostra mente, quella dei tuoi ragazzi, quelli che si sono innamorati di te, ed adesso non riescono proprio a dirti addio..

#CiaoTito

‘Il fùtbol non è il mio lavoro, ma la mia grande passione.
La mia terapia.
Ho imparato ad apprezzare tutto ciò che la vita ha da offrirti. Non sai mai quando il tuo momento arriverà’.
Tito Vilanova

Winston Coe, il portiere che volava senza un braccio..

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Se penso con attenzione all’aneddoto che sto per raccontarvi, mi viene da ridere quando, al tempo d’oggi, sento dai giornali o dalle televisioni che, alcuni giocatori odierni, hanno saltato un match o dato forfait ad un partita, oppure si sono assentati da un allenamento, a causa di piccoli problemi più o meno fisici, più o meno gravi: magari per colpa di una febbre, oppure per via di un dito lussato o dopo un mal d’orecchie noiosissimo.
Per carità, sfido chiunque a giocare con uno di questi ‘impedimenti’, non negando che essi siamo fastidiosi quanto debilitanti per fisico o spirito.
Però, allo stesso tempo, se penso che, altri uomani, in altri tempi, ormai andati [purtroppo], hanno combattuto guerre, o, meno tragicamente, hanno giocato partite di calcio e sono passati alla storia in condizioni e circostanze ben più gravi e pesanti, mi chiedo perché oggi, incredibilmente ed improvvisamente, gli uomini, ed in particolare i giocatori moderni, si siano, tutto ad un tratto, rammolliti ed indeboliti, perché siano diventati femminucce tutto insieme. Irrimediabilmente. Senza palle. Senza coraggio, senza onore oppure spirito di sacrificio, caratteristiche che, invece, molti anni indietro, hanno reso immortale e grandioso questo tremendo e fantastico sport che si chiama ‘calcio’. Che lo hanno reso quello che è adesso.
Altri tempi.
Ben altre cose ed interessi che giravano intorno a questo gioco bellissimo.
Altri uomini ad interpretarlo.
Proprio uno di questi, uno di quei personaggi straordinari e meravigliosi che tanto rimpiangiamo oggi, è stato senza ombra di dubbio Winston Coe.
Ai più, anzi, forse a praticamente tutti voi, il nome di questo ragazzo argentino di origine irlandese non dirà assolutamente un bel niente. E fino a qualche giorno fa, ad essere onesti, neanche a me. Esattamente fino a che non ho conosciuto la sua assurda, quanto incredibile, storia. Tanto incredibile che ho voluto condividerla con voi.
Siamo in Argentina nel 1906 e, sorprendentemente, le potenze calcistiche nazionali dell’epoca, non coincidono assolutamente con quelle di oggi.
Nessun Newell’s Old Boys, nessun Boca Juniors. Niente River Plate od Independiente. Non ci saranno loro nè tantomeno il Rosario Central od il Racing Club a colorare questo assurdo e fantascientifico racconto.
No.
I nomi che vi sto per narrare sono ben altri, e suonano assolutamente sconosciuti e buffi ad orecchie moderne, come per esempio Estudiantes di Buenos Aires [ e non quello di La Palata ], Alumni, Reformer e Barracas Athletic, solo per citarne alcuni.
Ed è proprio quest’ultima compagine, l’Athletic appunto, la squadra del nostro eroe.
Sono gli anni del dilettantismo, ed il Barrcas è una delle squadre più importanti del paese. Non la più forte, ma una di quelle con più seguito sicuramente.
La formazione dell’Athletic era formata esclusivamente da studenti argentini ed immigrati britannici, ed aveva tra i suoi pali uno dei portieri più forti dell’epoca, tale Josè Buruca, universalmente conosciuto come Laforia.
‘El portero’ in questione era così forte e magnifico che ben presto le super potenze dell’epoca misero gli occhi su di lui, tanto che, proprio nell’estate del 1906, Laforia si trasferì all’Alumni, la formazione argentina più forte del suo tempo.
La cessione del portiere fenomeno fu decisa e perfezionata proprio il giorno prima di un’amichevole che il Barrcas doveva disputare contro l’Estudiantes di Buenos Aires.
All’epoca, come potete ben immaginare, non era presente assolutamente, ed ovviamente, neanche un minimo della politica ‘organizzativa’ di oggi, nè tantomeno l’ampiezza delle rose che invece siamo abituati a vedere ai giorni nostri, un po’ perché il calcio stava, lentamente, nascendo proprio in quel periodo, specialmente in Sudamerica, un po’ perché ‘el fùtbol’, agli inzi del secolo scorso, non era assolutamente una professione, non era affatto un mestiere, e quindi, il tutto, era lasciato al caso più totale.
E così, il giorno della partita, il Burracas si ritrovò senza un portiere di ruolo.
Neanche uno. Neanche una misera riserva da ficcare nel bel mezzo di quegli stramaledetti pali.
No. Niente.
Dentro la società della capitale scoppiò ben presto il panico più totale.
‘Perdermo partita, onore e prestigio’ urlavano terrorizzati i dirigenti.
Nessuno dei calciatori in squadra si sentiva di fare l’estremo difensore, neanche per una sola partita. Nessuno era convinto delle proprie potenzialità, nè tantomeno era disposto ad un simile sacrificio. Nessuno o quasi. Si perchè fu così che, all’improvviso, fortunatamente per l’Atetic, appena prima dell’inizio del match, un piccolo grande angelo salvò la squadra dalla vergogna più totale: il giovane attaccante Winston Coe, oltretutto uno dei soci fondatori del club, si fece coraggio e disse ai suoi amici dirigenti ‘Se posso dare una mano sarò ben lieto di farlo. Due no, ma una si. Molto volentieri’.
Battuta non a caso.
Già perché il ragazzo in questione, ahimè, era privo del braccio destro, perso a causa di una brutta infezione.
Eppure, senza esitare un secondo, si offrì volontario per ricoprire un ruolo a lui di difficile interpretazione. Altro che i giocatori di oggi..
L’intera squadra, quando Winston si propose davanti la dirigenza, scoppiò in un applauso commovente e liberatorio.
Il Barracas aveva salvato la faccia e l’onore, e tutto grazie a quel ragazzo a cui
mancava un arto, ma non certo il coraggio di mettersi in gioco e di non darla vinta all’infame vita.
Il coraggio di cimentarsi nell’impossibile più totale.
E così, grazie a Winston, la partita si svolse regolarmente e si concluse con la vittoria per 2-1 dell’Estudiantes di Buenos Aires. Eppure, nonostante la sconfitta, i tifosi ed i compagni di squadra rimasero sbalorditi dalle parate e dalla prestazione di Coe, che sembrava un veterano del ruolo ed un vero e proprio gatto dei pali. Anche i giornali rimasero esterrefatti da quell’atipico portiere, tanto che, per esempio, il quotidiano ‘La Pensa’, la mattina seguente, scrisse ‘Coe ha interrotto quasi tutti gli attacchi rivali. È diventato famoso improvvisamente. Non è facile giocare in un ruolo del genere in condizioni simili. Sicuro nel fermare la palla, grandi balzi per parare i tiri rivali, trasmette una fiducia encomiabile’. Ed in effetti, sembra quasi impossibile che un ‘portero’ con solo un braccio possa aver concesso soltanto due gol ai famelici avversari assetati di gol e gloria.
L’Athletic credette molto in lui, tanto che lo confermò anche nelle partite precedenti, contro le super potenze dell’epoca Reformer ed Alumni, match che, purtroppo, si conclusero con pesantissimi risultati: 11-0 e 5-0.
Eppure, le cronache dell’epoca parlano di ‘sconfitte ancora più catastrofiche se non ci fosse stato Coe tra i pali’.
Winston continuò così nella carriera di portiere, sbalordendo ben presto non più solo compagni o società, ma tutta l’Argentina ed il mondo intero.
Ancora oggi, infatti, con i dovuti paragoni, é considerato uno dei migliori estremi difensori ‘albicelesti’ di tutti i tempi.
Lui, il ragazzo senza un braccio, quello che ai tempi in cui River e Boca erano a malapena un’accozzaglia di dilettanti allo sbaraglio senza arte nè parte, incantava l’Argentina con le sue parate e quell’incredibile voglia di dimostrare che il destino bastardo non avrebbe mai vinto, non avrebbe mai segnato neanche un gol all’unico portiere della storia che giocava senza un braccio.
Che giocava senza un arto, ma non senza coraggio.
Quello, per fortuna, non glielo avrebbe potuto portare via proprio mai nessuno.

Parlami dell’Hillsborough..

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‘You’ll Never Walk Alone’.
Non camminerai mai solo. Anzi.
Non camminerete mai soli. Mai.
A Liverpool nessuno sarà mai così veramente solo e solitario da sentire i brividi del freddo. Da sentire la tristezza salire alla gola e non permettere quasi neanche di parlare ed ed esprimere la propria gioia.
Nessuno, nella città delle case dai i mattoncini rossi, in puro stile british, sarà mai così solo da allungare la mano nella notte e non trovare qualcuno da abbracciare. Qualcuno a cui sussurrare un semplice e meraviglioso ‘Grazie’.
Mai.
Nessuno.
Nessuno camminerà mai solo a Liverpool.
Nè la meravigliosa squadra che deliziosa Anfield e la straordinaria Kop da quel lontanissimo 1892, nè tantomeno chi per questa maglia ha sudato fino a svenire, ha sputato l’anima, il sangue e tutto ciò che aveva dentro, senza chiedere niente in cambio. Senza recriminare o presentare, alla fine, il conto per tale lotta. No.
Nessuno sarà mai solo.
Neanche chi adesso non c’è più ed invece dove esserci, doveva essere felice ed avere una bella famiglia da amare, un cane da accarezzare ed un bel paio di pantofole domenicali a quadretti scozzesi da indossare, appena alzati, davanti ad un tazza di caffè fumante ed un buon giornale, prima di vestirsi ed andare a sostenere quella maglia magica che tanto fa sognare. Chi per questa maglia e per questa città ha dato la vita, ha lasciato prima del previsto un mondo che forse non li meritava per niente. Anzi, senza forse.
Nessuno camminerà mai solo a Liverpool. Nessuno mai.
Roba di orgoglio. Roba di solidarietà e fratellanza. Roba di lacrime così salate che segnano il viso ogni maledetta volta che decidono di vedere il sole, di fare capolino, fino a modificarlo, quel volto, ahimè, per sempre. Come il mare con gli scogli, così il dolore distrugge gli uomini allo stesso medesimo e maledetto modo. Non chiede scusa. Non chiede permesso. Non prova pietà. No. È lento ed inesorabile, viscido e micidiale, che quasi ti abbandoni a lui senza neanche accorgertene.
Purtroppo è così e forse per sempre lo sarà.
Il dolore non lascia scampo nè chiede di sapere prima il conto in banca o la storia della tua vita. È democratico, giusto, imparziale. Colpisce chi deve colpire allo stesso modo.
Eppure, nonostante questo, nonostante la tristezza che avvolge gli esseri umani per non lasciarli mai più, c’è, in realtá, una cosa sicura in questa vita. Sicura come la morte e le tasse che puntuali si presentano quando devono presentarsi: nessuno camminerà mai solo a Liverpool.
Mai.
Questione di vita. Questione di passione trasudante che la pelle imbeve e poi infiamma. Questione di cuore, un cuore rosso come quella maglia che la gente prega. Un cuore su cui sopra puoi trovare scritti solo e soltanto i nomi dei loro figli e subito sotto quello del Liverpool, il mitico Liverpool e nulla più. Non c’è posto per canzoni e cantanti. Non c’è posto per fidanzate o mogli. Non ce posto per luoghi o viaggi. Per estati da ricordare o chissà quali inverni da incorniciare.
Solo loro. E basta. Sangue del loro sangue.
Solo lei. La fede. E basta.
Il nome di una religione. Di un popolo eterno che nell’eternità vive e vivrà per sempre. Oltre le sconfitte e le vittorie. Oltre la facilità di sostenere quando tutto va bene e di mollare tutto quando, invece, le cose vanno di merda. Oltre il dolore. Oltre lo strazio che ogni 15 aprile si manifesta esattamente allo stesso bastardo modo, proprio come si manifestò venticinque maledetti e schifosi anni fa, quando tutto cambiò per sempre, per non tornare più.
Quando tutto finì dove tutto inziò.
A Sheffield.
Già, Sheffield.
Sheffield c’entra sempre, in un modo o nell’altro.
Non potrebbe essere altrimenti.
Altro che Madrid, Buenos Aires, Londra, Lisbona o Rio De Janeiro. Altro che qualunque altra città del mondo.
La patria del football è e rimarrá solo e soltanto Sheffield.
Il posto dove il calcio fu fondato in quel lontanissimo 1857, dove fu giocata la prima storica partita [il 26 dicembre 1860 per l’esattezza], nonché derby, tra lo Sheffield Fc, la prima squadra della storia, e l’Hallam Fc, la seconda squadra comparsa al mondo.
Arriveranno poi lo Sheffield Wednesday e lo Sheffield United. Arriveranno Hillsborough e Bramall Lane, i templi moderni di vecchi gladiatori che il calcio lo respirano da prima di chiunque altro a questo mondo.
Ecco, per quanto io, ami Bramall Lane e lo reputi, insieme a Craven Cottage, forse lo stadio inglese per eccellenza, il luogo perfetto dove respirare ancora il vecchio calcio inglese, oggi, purtroppo, la storia ed il passato mi portano a parlare dell’altro impianto della città dell’acciaio e del calcio, Hillsborough.
Cazzo, Hillsborough.
Un nome che suscita sempre due reazioni: per i fortunati che non conoscono ancora la tragica storia che sto per andare a narrare, questo nome non scaturirà in essi proprio un bel niente, se non magari una sorta di disagio nel provare a pronunciare un nome all’apparenza così difficile.
Per chi invece, purtroppo, ahimè, conosce già i fatti, il dramma e l’orrore, questo nome farà sorgere in loro brividi dove prima non c’erano, dove in realtá non ci sono mai stati prima, e dove non ci saranno mai più. Farà sorgere terrore ed orrore in occhi placidi e sognatori. Paura e sgomento e nulla più.
Non lascerà spazio a sorrisi e speranze. No.
Quel nome, sorrisi e speranze, le soffoca ancora nella culla.
Hillsborough.
Il mostro cattivo che ha spento ed infranto così tanti sogni da diventare ben presto la casa prediletta dal diavolo in persona.
Hillsborough.
Lo stadio dove, il 15 aprile 1989, cambiò per sempre il mondo del calcio, inglese e non. Il luogo dove cambiò tutto. Il giorno da cui non si può tornare indietro.
Il giorno in cui era in programma la semifinale di FA Cup tra Nottingham Forest, il glorioso Nottingham Forest, vincitore esattamente una decade prima di due storiche Coppe dei Campioni, quando sulla sua panchina sedeva su maestà Brian Clough, ed il Liverpool, il leggendario Liverpool. La squadra più titolata ed amata d’Inghilterra. L’unica capace di attirare tifosi da tutto il mondo. L’unica squadra non più semplice formazione di calcio, ma bensì, ormai, un vero e proprio ‘stile di vita’, un ‘simbolo d’appartenenza’, una ‘religione più o meno pagana’. La formazione dei tifosi che intonano la stupenda e famosissima ‘You’ll Never Walk Alone’.
Per quel giorno, per quella maledetta partita, fu scelto, appunto, come da regolamento, il campo neutro di Sheffield. Per l’esattezza, fu scelto proprio lui, il nefasto Hillsborough.
Quel giorno il sole splendeva, l’afa di inzio primavera scaldava corpi e speranze ed il cielo era così terso che difficilmente lo rivedremo tale. Il tipico clima festoso inglese inondò ben presto la città delle ‘civette’ e delle ‘lame’.
Tutto era pronto per una memorabile partita di Football. Una di quelle storiche. Bellissime. Epiche. Una di quelle che ti fanno esclamare ‘Che sport è il calcio..’.
Purtroppo, a modo suo, tutto questo avvenne.
I tifosi dei ‘reds’ si presentarono in massa al match, tanto che si notò quasi subito, anche se visto il blasone ed il seguito della squadra la cosa sembrava praticamente scontata e logica, che i rossi della città dei ‘Beatles’ erano quasi il doppio di quelli del Forest.
Eppure, nonostante questo, qualche mente illuminata assegnò loro la Leppings Lane, la curva a sinistra della tribuna centrale. Un settore relativamente piccolo, che poteva contenere solo 14.600, a differenza della ‘Spion Kop End’, assegnata a quelli del Nottingham Forest, in netta minoranza, dalla parte opposta dell’Hillsborough, che invece di persone ne poteva ospitare addirittura 21.000.
Il settore dei tifosi del Liverpool era carente in tutto: appena sei entrate contro le sessanta della Spion Kop, poliziotti incompetenti ed incapaci di scandire il normale deflusso dei tifosi, tanto che a pochi minuti dall’inizio del match, i tifosi fuori l’impianto superavano, e di molto, quelli presenti dentro l’Hillsborough.
La polizia decise, allora, per paura che succedessero scontri fuori l’impianto, di aprire il famigerato ‘Gate C’, un enorme cancello che portava ad un tunnel sfociante nel bel mezzo della curva, parte di settore recintato ed assai angusto, che poteva contenere, al massiml, solo la miseria di 2.000 tifosi.
Fu l’inizio della fine: i tifosi, per paura di perdere il calcio di inizio, si ammassarono tutti al ‘Gate C’, tanto che ben presto la parte centrale della Leppgings si riempì all’inverosimile. Coloro che non poterono entrare rimasero intrappolati dentro il tunnel, incapaci sia di uscire che di entrare, mentre i tifosi già presenti nella curva veniva schiacciati contro le recinzioni laterali del settore.
Fu una catastrofe. In pochissimi secondi la curva arrivò al collasso. Quel piccolo fazzoletto infernale si riempì in maniera spaventosa. Una giornata di festa e gioia, si trasformò, nel giro di qualche secondo, in una mattanza senza precedenti.
L’inferno si manifestò in terra.
I tifosi del Liverpool si fecero prendere da un panico tanto comprensibile quanto micidiale. Eppure, nonostante tutto, nonostante le urla e le grida, le lacrime ed i pianti che pian piano invadevano quel maledetto stadio, la partita inzió senza che nessuno in campo si accorgesse di un cazzo di niente.
Al settimo minuto, però, finalemnete, il match fu interrotto, non tanto perchè qualcuno si rese realmente conto di quello che stava accadendo, bensì perchè un ufficiale costrinse l’arbitro a farlo, dopo che notò che molti tifosi ‘reds’ stavano scavalcando le recinzioni e si stavano gettando, disperati, sul campo da gioco per sfuggire a morte certa. La polizia, però, credendo che si trattasse di un’invasione di campo, e prevenuta sul fatto che la reputazione degli hooligans del Liverpool non era proprio una delle migliori, cercò di impedire alle persone di scavalcare quella sottile barriera che divideva la tragedia dalla salvezza, che divideva la fine dalla vita,
formando un muro umano che impedì a quelle persone di scappare dall’inferno.
Ci vollero parecchi minuti perché i poliziotti si rendessero realmente conto della tragedia e delle sue proporzioni, di ciò che realmente si stava consumando in quello stadio maledetto di nome Hillsborough, di ciò che stava accadendo veramente, nonostante le preghiere e le urla dei tifosi, che chiedevano loro di farsi da parte, già da parecchi minuti si facevano sempre più insistenti e strazianti.
La polizia lasciò così che i tifosi scavalcassero la recinzione ed invadessero il campo, aiutandoli nel farlo.
Un ragazzo, poco più che ventenne, si avvicinò allo storico capitano scozzese del Liverpool, Alan Hansen, ed in preda a lacrime e singhiozzi gli disse, appoggiando le priprie mani sulle sue spalle ‘Sta succedendo una strage lá dentro’.
E così fu.
Morirono 96 angeli. 79 di questi non superavano i 30 anni di età.
Gli adolescenti che perirono quel giorno furono decine.
Un uomo di nome Trevor Hicks perse due figlie, Sarah di 15 e Victoria di 19. ‘Erano bellissime. Qualche giorno prima mi chiesero ‘Papá, andiamo a vedere il Liverpool a Sheffield?’ Io gli dissi di si. Dicevo sempre di si alle mie bambine. Non avrei mai dovuto farlo. È un rimpianto che non mi lascerà mai’.
La vittima più giovane fu Jon-Paul Gilhooley, dieci anni, cugino dell’attuale, e storico, capitano dei reds Steven Gerrard, di due anni più giovane di lui. ‘Fu tremendo quando venni a sapere che uno dei miei cugini morì all’Hillsborough. Fu terribile. Ogni vittoria con questa maglia, io, la dedico a lui. Ogni partita ad Anfield, quando raggiungono lo stadio in macchina, mi fermo al monumento della strage per lasciare dei fiori oppure solo un pensiero a loro ed a lui ‘. Ed a lui, Jon, Steven dedicò anche la vittoria della Champions del 2005 nell’assurda partita riacciuffata per i capelli contro il Milan.
Non ha trattenunto le lacrime neanche qualche giorno fa, dopo il pazzesco 3-2 del Liverpool, il suo Liverpool, sul Manchester City, partita importantissima per la corsa ad una Premier che da queste parti manca dal 1990 e che Gerrard vuole vincere prima di lasciare il calcio. Così, a fine partita, ha ringraziato il cielo, ha ringraziato quel giovane cugino che ha conosciuto per poco e che su lui veglia. Quel cugino col quale ha giocato per le strade del quartiere per un lasso di tempo troppo misero e triste perché lui possa ricordare. Poi, però, da buon capitano, ha asciugato le sue lacrime ed ha suonato la carica alla squadra. Senza tornare a guardare, per l’ultima volta, quel cielo terso proprio come quel giorno di venticinque anni prima.
Perché l’Hillsborough non si dimentica. Perchè la tragedia dell’Hillsoborough va onorata e ricordata ogni giorno. Ogni minuto. Ogni attimo.
La tragedia in cui 59 persone su 96 erano ancora vive quasi un quarto d’ora dopo che furono tirate fuori dalla calca, e che ben 41 di queste sarebbero potute essere salvate se solo i soccorsi non avessero perso del tempo troppo prezioso e determinante in tali casi.
La polizia e le istituzioni mentirono spudoratamente e schifosamente sui fatti successi quel giorno, cavalcando anche la pessima reputazione dei tifosi del Liverpool, sopratutto dopo un’altra strage, stavolta dove gli hooligans erano del tutto colpevoli, quella dell’Heysel di quattro anni prima, disastro in cui morirono in circostanze molto simili 39 tifosi del Juventus, e che costò ai club inglesi la radiazione dalle competizioni internazionali a tempo indeterminato [saranno reintegrati nel 1990].
I giornali si inventarono storie vergognose e patetiche, invece, riguardo l’Hillsborough: parlarono di tifosi ‘reds’ violenti ed esaltati, in preda ai fiumi di alcool, che cercarono lo scontro a tutti i costi. Tifosi capaci di rubare i portafogli ai cadaveri esanimi a terra per poi orinarci sopra in segno di schifo.
Non ci sono parole per tali bugie.
Non posso esserci.
I fatti andarono ben diversamente, ma solo nel 2012, a 23 anni di distanza, il governo inglese, ed in particolare il primo ministro David Cameron, riconobbe le colpe della polizia e delle istituzioni locali, assolutamente inadeguate a gestire un evento di tale portata ed incapaci di fornire le adeguate e necessarie cure nel momento del bisogno.
Nonostante gli innumerevoli processi, le centinaia di proteste, nonostante il rapporto Taylor tanto voluto dalla allora primo ministro Margareth Thatcher, la lady di ferro, che portò gli stadi inglesi ad un livello di sicurezza quasi ineguagliabile in Europa, il tutto non servì minimamente a dare giustizia a quei parenti che invece chiedevano soltanto la verità. Solo quella e nulla più.
Furono i tifosi, gli unici, quelli veri, quello tanto odiati e bistrattati, a dare una grande risposta di civiltà: attestati di stima, iniziative spontanee, lunghi momenti di commozione vera si susseguirono i giorni immediatamente successivi alla tragedia.
Alla faccia di chi crede che essi siano solo e soltanto hooligans.
Come il 7 maggio del 1989, quando quella maledetta partita fu rigiocata a Manchester, ad Old Trafford, e dove le due tifoserie assistettero alla vittoria per 3-1 del Liverpool assieme, senza settori distinti, senza scontri o gelosie. Esattamente come accadrà poi nella finale, tra Everton e reds, acerrimi nemici, ma non quella volta no. Magia del calcio. E poco importa che alla fine fu il Liverpool ad alzare la FA Cup ed a entrare nella storia. Quel giorno, a vincere, fu solo e soltanto il football.
Esattamente come ogni anno, nella settimana della tragedia dell’Hillsborough, quando le partite iniziano tutte con sette minuti di ritardo, per ricordare il tempo che ci volle prima che in campo si accorgessero della tragedia che si stava consumando, invece, sugli spalti. Una settimana in cui non esistono minimamente stemmi e colori, non esistono maglie e fedi. Non esiste il Liverpool, il Manchester, City o United che sia. Non esiste il Chelsea od il Wolverhampton, il Blackburn o l’Everton. Non esiste il Derby County o il maledetto Leeds.
Non esiste proprio un bel niente di tutto questo, in quella settimana.
Esiste solo un immenso senso d’appartenenza, esiste solo un pallone e milioni di cuori che battono allo stesso ritmo dei suoi rimbalzi. Un pallone che si nutre di sospiri e speranze, dubbi e respiri. Esiste una tale commozione in quella settimana, che spazza via qualunque tipo di maglia ed odio. Esiste solo un grido di richiesta di giustizia. Esiste solo ‘You’ll Never Walk Alone’.
La consapevolezza che non sono morti dei tifosi ma degli essere umani.
Una settimana in cui, più delle altre, affiora la paura che tutto quello successo quel dannato 15 aprile di venticinque anni fa possa, prima o poi, manifestarsi di nuovo.
La paura che quel maledetto nome, Hillsborough appunto, torni un giorno ad essere un mostro cattivo e malvagio, e non solo uno stadio di calcio.
In questa settimana qua, esiste la consapevolezza che le morti non hanno colore, non hanno età. Che non esistono morti di serie B, e che qualunque strage non deve essere nè dimenticata nè tantomeno infangata: che si chiami Superga, oppure Heysel. Che prenda il nome del mostruoso Hillsborough oppure quello del meno conosciuto Bradford. Che si manifesti in posti lontani, come la tragedia della maledetta ‘Puerta 12 del Monumental’, o quella dei boliviani dello ‘The Strongest’ oppure proprio sotto casa. Non ci sono stemmi nè odio in simili disastri. Non c’è differenza davanti alla morte.
Le lacrime non hanno colore. Non piangono su cuori a strisce. Non portano trofei.
Il sangue, da quel che so, in ogni parte del mondo ha lo stesso identico colore.
Rosso.
Rosso come le sciarpe di quelle 96 persone che oggi non ci sono più ed invece dovrebbero esserci. Rosso come gli occhi di Trevor Hicks, l’uomo che a Hillsborough ha perso due stupende figlie, quando piange e dice sotto voce, nel silenzio della sua casa vuota ‘Delle volte quel maledetto nome non lo voglio proprio sentire. Così mi chiudo nella mia stanza e piango fino a che non ho più lacrime. Altre sere, invece, mi faccio coraggio e chiedo a mia moglie ‘Tesoro, ti prego, parlami dell’Hillsborough’, per non dimenticare, per non dar modo a Sarah e Victoria di morire ancora, perché la memoria delle mie due stupende figlie non venga seppellita mai del tutto, come invece hanno fatto con i loro stupendi corpicini’.
Parole che lasciano spazio ai brividi. Parole strazianti.
Parole di un padre, in realtà, morto ormai esattamente 25 lontanissimi anni, insieme alle sue due meravigliose creature.
Parole tristi ma allo stesso tempo che celano un barlume di speranza nascosto. Parole che nascondano una forza segreta ed allo stesso tempo incredibile. Una forza invisibile ma reale. Perché non ci si deve mai abbattere veramente.
Perché nella vita proprio un bel niente è certo, niente è scontato e già deciso, se non che, a Liverpool, nessuno camminerà mai solo.
Proprio mai.
Giustizia per 96 innocenti.
You’ll Never Walk Alone, Angels.
Non camminerete mai soli, angeli.
Mai. È una promessa.
È Liverpool.
È una curva che mette i brividi ogni volta che canta per voi quella canzone così meravigliosa che forse la intonano anche in Paradiso.
‘You’ll Never Walk Alone’ trasforma le emozioni i brividi, i brividi in lacrime e niente più.
È poco, lo so. Ma è quello che, almeno, questo mondo, vi deve e vi dovrà per sempre.
A Liverpool, proprio nessuno, ve lo giuro, camminerà mai solo.

‘Quando cammini nel
bel mezzo di una tempesta
tieni bene la testa in alto
e non aver paura del buio
alla fine della tempesta,
c’è un cielo d’oro
e la dolce canzone d’argento
cantata dall’allodola
cammina nel vento
cammina nella pioggia
anche se i tuoi sogni
saranno sconvolti e scrollati
va avanti, va avanti
con la speranza nel tuo cuore
e non camminerai mai da sola
non camminerai mai da sola
va avanti, va avanti
con la speranza nel tuo cuore
e non camminerai mai da sola
non camminerai mai da sola’.

#You’llNeverWalkAlone
#JTF96

Vi chiedo solo di chiudere gli occhi per 1 minuto e 26 secondi. Solo questo: http://touch.dailymotion.com/video/x5pxjn_you-ll-never-walk-alone-liverpool-v_sport

Paco Alcácer, professione sognatore..

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Gli angeli non esistono mai per caso. Gli uomini straordinari non muoiono mai senza un motivo. Sembra ingiusto. Ma loro se ne vanno lassù per difenderci dal diavolo che invece rimane qua tra le viette ed aspetta. Magari per ore. Magari per anni. Magari per secoli, ma prima o poi apparirà.
Gli angeli non chiedono il perché della loro salita anticipata nel regno del Signore. Lá nella casa di Dio. Vanno e basta. Sanno esattamente il motivo per cui qualcuno li ha voluti lassù. Magari non lo condividono, ma lo rispettano.
Magari vorrebbero rimanere ancora un po’ qua, ma sanno che quando il destino chiama, è l’ora di andare. Volano e basta.
Gli angeli non hanno nè numeri nè età. Non giudicano, non piangono, non sbucciano le loro ginocchia su dei campi pieni zeppi d’erba, non dicono parolacce e nè tantomeno indicano i peccati dei bambini cattivi spifferando il tutto a Babbo Natale.
Loro hanno ben altri compiti. Anzi. A dire la verità ne hanno uno solo.
Gli angeli vengono chiamati lassù per proteggerci. Per proteggere i loro cari e per dargli modo di avere un’altra icona da pregare. Un altro simbolo a cui aggrappersi nelle notti in cui senti di non facela, nelle notti in cui credi che forse non vale più la pena lottare.
Non c’è nessun altro scopo nel loro cuore. Vengono chiamati per proteggere quei figli che lasciano quaggiù a piangere per un tempo che sembra infinito.
Nessuno escluso.
Soldi o potere, difronte al fato, non hanno alcun valore.
Ma la vita toglie e la vita dá, magari non in parti uguali, ma almeno qualcosa, delle volte, regala.
Ecco allora che ieri sera, il Paradiso intero riunito a festa, ha reso omaggio, finalmente, a Paco Alcacer.
Se lo merita tutto. Lui, il bambino cresciuto troppo in fretta. Il ragazzo che, ahimè, ben presto ha smesso di sognare, ben presto ha smesso di dire ‘Da grande vorrei..’, preso a schiaffi da una realtà che dei sogni di un bambino proprio non gliene frega un cazzo niente.
Eppure ieri sera, almeno ieri sera, Paco ha vinto. Ha guardato il cielo come ormai fa esattamente ogni maledetta sera da troppo tempo, ed alle stelle ha mandato un bacio, ringraziando quell’angelo custode che da tre interminabili anni non smette di essere con lui, di stare con lui, di baciargli la fronte ogni fantastica volta in cui il piccolo Alcacèr mette piede in campo, mette piede nell’ultimo luogo in cui può ancora sognare davvero. In cui può ancora provare emozioni.
Un angelo che non smette mai di accarezzarlo, come a dirgli ‘Scusa figliolo, non avevo scelta. Ma tranquillo, io sarò sempre con te’.
Perché glielo deve. La vita glielo deve. È in debito con lui. Deve risarcirlo in qualche modo.
Lo deve a quel bambino adulto che ancora diciassettenne ha vissuto contemporaneamente la più bella e la più brutta serata della sua vita, che nel giro di un secondo è passato dal tutto al niente, da un ‘Ciao’ ad un ‘Addio’, dal sentimento di onnipotenza, alla paura di essere troppo fragile per non rompersi per sempre.
Quel bambino che ha vissuto un tremendo incubo subito dopo un fantastico sogno.
Non è giusto. Non può esserlo. Chi decide tutto questo, non vuole bene all’umanità.
‘Scusa figlio. Non volevo. Ho dovuto andarmene. Spero che un giorno capirai’ sussurra l’angelo a quel ragazzo vestito di bianco che difendi colori che lo hanno cresciuto e forgiato.
Ma Francisco, anche se tutti lo chiamano Paco, ha già capito, tranquillo.
Lo sa perfettamente che suo padre lo ama proprio come se fosse qui e che il tutto è successo senza che nessuno ne abbia colpa, almeno tra i mortali.
Si perché ormai da quella sera di metà agosto di tre anni fa, sono passati abbastanza istanti, abbastanza battiti di ciglia, abbastanza respiri profondi perché il piccolo grande Paco sia finalmente diventato un uomo grande e maturo.
Non è facile, ma il tempo inevitabilmente aiuta.
Eppure i ricordi sono ancora tremendamente tutti lá.
Quell’amichevole contro la Roma. Il primo gol al Mestalla. Il calcio che conta. La possibilità di giocare accanto ai campioni, quello veri. Il Valencia che vince per 3-0 ed una serata da incorniciare nella memoria di una vita. Per sempre ed oltre. La voglia matta di abbracciare i propri genitori e ringraziarli per la loro pazienza. I loro sacrifici. Correre dalla mamma, baciarla sulle guance e dirgli ‘C’è l’ho fatta. Grazie’.
Un sogno bellissimo. Perfetto.
Fino all’uscita dallo stadio. Su quel maledetto Viale Svezia che da esattamente dietro le tribune, dove suo padre se ne sta, invece, sdraiato a terra senza sensi, mentre sua madre ricopre di urla tutta Valencia. Tutte le sue bellissime vie e le anime di quella gente che si strazia nel sentirle.
Il cuore del vecchio Paco, perché così si chiamava quell’uomo a terra, esattamente come il figlio, un pó come se i due siano destinati, in un modo o
nell’altro, a non staccarsi mai davvero, mai sul serio, non ha retto alla felicità della serata. Alla contentezza di vedere quel bambino per cui sacrifici e sudore sono finalmente e realmente serviti a qualcosa, dopo una vita da umile agricoltore modesto, sognando per quel pezzo di vita un’esistenza migliore. Orgogli di padre. Cuore di cristallo.
Gli angeli volano via senza chiedere scusa, senza permettere a chi ti vuole veramente bene di salutarti come si deve.
Gli angeli volano e basta, lasciando un vuoto nel cuore di chi li ama ed un ricordo che nessun altro amore cancellerà mai.
Paco lo sa, ma non può non soffrire. Paco subisce il colpo. Piange. Si dispera. Trova amici veri nel dolore. Uomini veri. Trova vita e amore. Trova un respiro che mancava da troppo, troppissimo tempo. Si rialza. Lotta. Torna a giocare. Torna a segnare ed ad incantare. È un uomo adesso. Il bambino, quel bambino che ha sempre vissuto in lui, è purtroppo morto una sera di mezza estate di tre anni fa.
Paco combatte, segna e fa segnare. Paco diventa a soli 21 anni idolo di una città che di calcio vive e si nutre.
Paco distrugge il Basilea nei quarti di Europa Leagie con una tripletta che farà storia, che ribalta un destino beffardo che una settimana prima aveva visto la sua squadra perdere per 3-0 in Svizzera. Ma questo poco importa. Paco non ha più paura.
Esattamente come ieri sera. Quando il destino gli era contro un’altra volta. L’ennesima.
Quasi impossibile ‘remuntare’.
Quasi appunto.
A meno che tu non abbia un angelo che da lassù ti protegge ogni maledetto giorno che vivi in questo luogo fatto di merda e sofferenza. Un angelo che devia per te palloni, che tu magari di petto e giri in rete, che scaraventi dentro con rabbia dopo un perfetto assist di tacco, o che magari appoggi da pochi passi dietro le spalle del portiere. Niente è impossibile se hai un angelo al tuo fianco, che dopo tutto questo ti sussurra all’orecchio, nel buio della notte e nella profondità di un sogno che vorresti non finisse praticamente mai, perchè finalmente, dopo anni, è la tua notte, davvero stavolta ‘Ti amo figliolo. Ti amo amore mio’.
Perchè il padre, quello grande, lo sa: se la vita fosse giusta, non creerebbe uomini straordinari pronti a combatterla.
Corri Paco. Corri e sorridi, corri e non ti voltare, che per piangere c’è sempre tempo.

1:https://youtu.be/ggyDkt83L0c

‘You’ll Never Score Alone’. Robbie Fowler, l’uomo che la Kop chiamava ‘God’..

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Non si può cambiare squadra.
Non è possibile. No. Assolutamente. Non è umano. Non è giusto. Non sta nella natura del niente più totale.
C’è qualcosa di insano,
meschino e vigliacco nel farlo.
C’è qualcosa di schifoso e subdolo dietro tale scelta. Un qualcosa di viscido che mi fa schifo solo pensare .
Neanche il diavolo, il peccatore per eccellenza, il Dio del male, farebbe una cosa del genere.
Neanche lui.
Neanche gli animali, se avessero il loro calcio e fossero messi davanti alla possibilità di cambiare fede, lo farebbero.
Neanche loro.
Nessuno sano di mente e con il cuore abbastanza vibrante per provare anche la più minima emozione, lo farebbe.
Troppo l’orgoglio.
Troppo il legame.
Troppa la vergogna di e nel ripudiare ciò che prima era aria, vita, ossigeno e cibo nello stesso momento. Allo stesso tempo.
Sia chiaro, nella vita, si può cambiare tutto.
È nell’indole dell’anima umana: c’è chi cambia fidanzata, chi decide di comprare un auto nuova, magari bella e fiammante, scordandosi ben presto di quella vecchia e fidata amica ormai destinata a chissà quale discarica. C’è chi, anche, decide, sopratutto nel nostro Bel Paese, di cambiare schieramento politico così come noi comuni mortali, e succubi di tale sistema vergognoso, cambiano magliette e mutande. Senza ritegno.
Senza preoccupazione.
Senza problemi.
Ok. Nessuno lo vieta, per carità.
Eppure, persino loro, quei politici così illuminati, così attaccati ai problemi dei cittadini da non ridursi lo stipendio per il ‘bene del paese’, son sicuro, davanti alla possibilità di cambiare i colori del loro cuore, di cambiare quello stemma tatuato sul petto, portatore di lacrime e gioie, riuscirebbero a farlo.
C’è una morale ad impedirlo.
Chi è tifoso, tifoso vero, non tradisce. Non dimentica. Non può. Non deve.
Prima la mamma, poi il papà, poi eventuali figli e poi lei. La tua squadra. Parte della famiglia così come lo è il fedele cane che dorme ai piedi del tuo letto. Parte di te come può esserlo un braccio od una gamba.
Neanche il più meschino degli uomini sarebbe in grado di fare un simile salto nel vuoto, sarebbe in grado di dire ‘Au Revoir’ a ciò che è stato per una vita e sposare una nuova cultura, sposare nuovi idoli, una nuova fede che prima non era propria.
Eppure, purtroppo, le eccezioni ci sono, e non sono neanche poche, ma quei signori, per me, quelli tanto ‘coraggiosi’ che decidono di voltare le spalle a ciò che dicevano di amare, ma che in realtá non amavano per niente, sinceramente, non me ne vogliano per caritá, neanche meritano di esser chiamati ‘uomini’.
Neanche quello.
Al massimo, per citare il sergente Hartman in Full Metal Jacket, questi signori qua, grazie alla loro scelta, possano essere paragonati a ‘pezzi informi di materia organica anfibia’.
Stop. Niente meno e niente più.
Eppure..
Eppure c’è chi c’ha provato, riuscendoci anche. Riuscendo a diventare famoso e rispettato, diventando, tutto d’un colpo, non solo tifoso della nuova fede, ma anche idolo e simbolo di quella maglia rivale che solo pochi giorni prima era il ‘grande male’, il nemico da eliminare ad ogni costo e con ogni mezzo.
Molti hanno fatto il grande salto, il grande e meschino cambiamento.
Molti altri, invece, sinceramente, non avevano intenzione di fare tutto questo, spinti da una morale forte e solida. È stata però la vita, la realtà, le scelte di un destino bastardo rd infimo, a scegliere per loro.
Anche se il loro cuore ha lottato fino all’ultimo, ha dovuto, alla fine, cedere a ciò che non si può cambiare, a ciò che non si può sconfiggere, ma solo subire.
Uno di questi guerrieri vinti, forse il più famoso, è senza dubbio Raùl Gonzalez Blanco.
Il mito Raùl.
Il massimo cannoniere nella storia del Real Madrid, il glorioso Real, che, in realtà, da piccolo, giocava e tifava per l’altra metà della città, pazzo d’amore per quell’Atletico che odia i ‘blancos’ più di ogni altra cosa al mondo. Più dell’assassino che ha ucciso la tenera madre.
Più dell’amante che ha infranto i sogni di una vita tranquilla e serena con la donna che volevi sposare per l’eternità.
Più di tutti.
Eppure Raùl, o meglio il destino, c’è riuscito. Fregandosene della morale, fregandosene di tutto e facendo addirittura si che, quest’ultimo, agli occhindella storia, sia pure diventato leggenda.
Da un giorno all’altro il suo cuore ‘colchoneros’ ha cambiato colore ed amore per diventare mito.
Nessuna lacrima versata. Nessun rimpianto davanti ad un bicchieri di ‘Porto’ confortante.
Niente di niente. Solo la gloria e niente più.
Un altro che di quelli che hanno fatto ‘il grande salto’, peccato non mortale solo e soltanto perché ai tempi del Sommo Poeta Dante il calcio non esisteva e non lo si è potuto, quindi, incastrare in nessun girone dell’inferno, è stato sicuramente Robbie Fowler.
Magari meno conosciuto del più famoso Raùl, ma sicuramente più romantico e pieno di passione.
Più poetico, più divino, come se la sua vita fosse uscita dalla penna di chissà quale illuminato scrittore pieno di sensibilità. Come se la sua storia fosse naratta da un romanzierie di tutto rispetto e del calibro di Jack Kerouac o Ferdinand Cèline.
Si perché la vita di Robbie Fowler è stata un film che nessuno ha mai girato. Che nessuno ha mai visto. Un film senza spettatore o copione.
Un film che solo lui ha vissuto. Che solo lui ha assaporato fino all’ultimo pezzetto di midollo possibile. Che solo lui ha sognato che succedesse davvero.
Un film che solo Fowler può davvero sapere quanto sia stato meravigliosamente fantastico da vivere.
Sapete, ho pensato molte volte a cosa risponderei se qualcuno un giorno mai mi chiedesse ‘Se solo tu potessi decidere di rinascere, chi vorresti essere?’. Ecco. adesso posso dirvelo. Tolto l’ovvio Eric Cantona, il King, io, se solo potessi rinascere un giorno, vorrei essere lui, Robert Bernand Fowler. L’uomo che nessuno ha mai chiamato col suo vero nome, ma sempre è solo Robbie.
L’immenso Robbie.
Il ragazzo arrivato al mondo con un ritardo maledetto.
Quasi imperdonabile.
O forse no.
Vent’anni.
Ecco, minimo vent’anni.
Al massimo dieci, ma non di meno.
Assolutamente no.
Lui, Robbie Fowler è il classico ritardatario incallito, di quelli che si fanno distrarre da qualunque cosa graviti intorno a lui: dal bel culo di una ballerina alla fermata del bus a due piani, dalle tette di una hostess ammiccante a tremila metri d’altezza o da una bella scazzottata fuori da un pub che lo attira maledettamente come una calamita fa col dannato ferro. Una bella e sana rissa da ubriaconi che dice all’ubriacone di turno ‘Vieni qua e possiedimi’.
Ecco.
Fowler è il classico mito che ha mancato il treno con il suo tempo, con il suo mondo, con quegli anni che lo avrebbero reso diamante e Re, imperatore e sacerdote allo stesso tempo, nello stesso momento, solo e soltanto perché ha preferito fare altro.
Robbie Fowler ha proprio sbagliato periodo, o almeno, quel qualcuno che lassù ha deciso di gettarlo qua.
Lui, Robbie, non lo sa, ma se solo fosse nato qualche anno prima, se solo avesse giocato e solcato quel verde campo leggendario di nome Anfield, un nome che fa tremare i polsi al solo nominarlo, soltanto alcuni respiri precedenti, magari forse quando sulla panchina dei gloriosi ‘reds’ sedeva un certo Bill Shankly, il condottiero scozzese nominato dalla Kop ‘allenatore del secolo’, nonostante non sia stato neanche il più vincente della storia del Liverpool, ma il più tifoso si, senza ombra di dubbio, oppure qualche stagione dopo, quando lá davanti con la gloriosa numero 7 giocava sua maestà Kenny Dalglish, un’icona così grossa che forse precedeva, addirittura, anche, la gloria della sua stessa straordinaria ed immortale squadra, ecco, forse li, in quel preciso momento, Robbie sarebbe davvero diventato leggendario. Alla pari dei vari Stanley Matthew, Maradona o Di Stefano. Come Pelé più di Pelé.
Non che nel suo genere non lo sia anche adesso, per carità.
Ma se solo fosse nato anni prima, Fowler, a mio avviso, sarebbe sicuramente diventato così lucente da riscaldare anche i cuori più bui. Sarebbe diventato maestà tra i popoli, sesso ed amore ad un incontro tra preti e suore. Sarebbe diventato il cielo dal quale aspettare la pioggia. Sarebbe monarca assoluto di uno sport suo.
Maledizione !
Doveva nascere qualche decade prima.
Punto.
Sarebbe stato incastonato tra quelle leggende in bianco e nero che hanno reso grande questo sport.
Oggi la sua immagine sarebbe vista dai bambini che si affacciano per la prima volta a questo mondo, come un’icona senza colori ed età.
Avrebbe preso parte a foto di campi zuppi d’acqua e pieni zeppi di fango, con quel fumo
dato dalla condensa che li usciva da quella bocca maledetta, senza scalda muscoli o sciarpe da fighetti attorno al collo, senza parastinchi o magliette della salute a difendere corpi gracili, tempi in cui quando gli orecchini stavano solo e soltanto sul volto delle signore, mentre sul rettangolo di gioco scendevano gli uomini veri, straordinari e guerrieri, le leggende ed i gladiatori moderni. Quando nessuno faceva sceneggiate per niente, quando i contrasti era leali ed i copioni hollywoodiani non descrivevano minimamente il modo di simulare di un calciatore, ma soltanto i film che di li a poco sarebbero usciti nelle sale cinematografiche prese d’assalto dalle coppiette innamorate.
A quei tempi le creste stavano solo in testa a galli e galline, e le scarpe erano tutte tremendamente uguali, così nere da non distinguerle l’una dalle altre, così belle e semplici da essere stupende, così ‘nate per il calcio e niente più’ che adesso sembrano un miraggio irraggiungibile, un inno ad anni ed a tempi che, ahimè, non torneranno più e mai più.
Se solo Fowler non si fosse perso a corteggiare chissà quale signorina e fosse andato a letto presto, oggi, la storia del football, avrebbe altre pagine nei suoi libri.
Eppure, nonostante tutto questo, nonostante Robbie non abbia preso parte al ‘suo tempo’, non sia sceso su quei campi degli anni ’60-’70 che oggi tanto mancano agli amanti di questo sport, la leggenda Robbie è riuscito, ugualmente, addirittura a farsi chiamare, dai suoi tifosi, ‘God’, ‘Dio’. Come se non fosse terreno, come se non fosse uno di noi, bensì un semidio atterrato da chissà quale Paradiso lontano. Sembra tutto questo, invece, non lo è.
Il piccolo grande Robbie, ha sempre e solo vissuto qua. Tra noi.
Nasce a Liverpool il 9 aprile del 1975, e più precisamente a Toxteth, sud della città.
Posto non facile. Zona non tranquilla. Quartiere con molti problemi, dove i bambini per scappare da una realtà opprimente, non possono far altro che rifugiarsi nel calcio. Nell’amico pallone.
Robbie non fa eccezzione, tanto che, ben presto, con ancora il latte alla bocca, il piccolo Fowler, diventa un tifoso sfegatato dell’Everton. Di quelli sanguigni, di quelli che mettono la squadra prima di tutto e tutti e che ama i ‘Toffees’ più di ogni altra cosa al mondo.
Robbie cresce con la maglia blu tatuata addosso e non si vergogna di certo ad alzare le mani se c’è bisogno di difendere la sua sacra e profana fede ogni qualvolta qualcuno cerca di denigrarla.
Per lui, l’Everton non è affatto ‘l’altra squadra della città’, così come la chiamano dispregiativamente i tifosi del Liverpool.
Per lui è vita, è il mondo intero, il cielo dove gravitano sogni e speranze di un piccolo bambino che gioca attaccante nella squadra del suo quartiere e che un giorno sogno di indossare quella dei suoi ‘blues’, la maglia che per lui non è solo stoffa e sudore. È una reliquia preziosissima da sbattere in faccia a quelli spocchiosi stronzi del Liverpool. È una religione sfigata da difendere contro tutto e tutti, fregandosene dei titoli, quei maledetti e bastardi titoli che prendono sempre e soltanto la strada per Anfield.
L’Everton è la squadra del popolo, la prima squadra nata in città [1878], che ne vogliano o meno i reds, nati ben quattordici anni dopo con il nome ‘Everton FC and Athletic Ground plc’ proprio in omaggio ai cugini, ed è stata anche la prima formazione a beneficiare dei servigi di Anfield, oggi orgoglio e fortino rosso, ma alle origini casa e gloria di quella che proprio ‘l’altra squadra’ della city non è.
Robbie, dall’età di tre anni, lo capisce e si fa ammaliare da così tanta storia e poesia.
Poesia.
Proprio identica a quella che esce dai suoi piedi e dalle pazzesche giocate che riesce a tirar fuori ogni maledetta domenica sui campetti cittadini.
La classe di Robbie è così pura e cristallina, ed i suoi giochetti sono così ‘latini’ e passionali, che molti si chiedono, mentre lo ammirano dalle tribune sgangherate di periferia, se quel piccolo nano danzante sia brasiliano o argentino, proprio per il suo modo di toccare e dare del tu al pallone, perché piedi così educati, in Inghilterra, non possano proprio essere nati. Non qua, nella patria della corsa lunga e dei tocchi marmorei.
Robbie, invece, incanta e danza col pallone, lasciando tutti col dubbio delle sue origini fino a che questi non lo vedono da vicino e notano sul suo volto la classica faccia inglese da schiaffi. Di quelle placide ed incazzate allo stesso tempo. Di quelle che, con tali guance sempre rosse, subito ti fanno pensare alla birra ed ai milioni di pub che ogni domenica accolgono tifosi molto esaltati. Di quelle che riconosceresti tra mille.
Altro che Sudamerica o Cile o qualunque altro cazzo di paese danzante. Robbie è nato a Liverpool e Liverpool incanta già all’età di sei anni.
Ben presto la fama di quel ragazzino si sparge in città, ed ogni domenica molti osservatori e 007 si recano su quei campetti spelacchiati per tenere d’occhio quel ragazzino magico.
Lo sforzo di questi ultimi di muoversi e recarsi in campi di calcio ‘dimenticati da Dio’, peró, ben presto è ampiamente ripagato.
Quel bambino è un genio del football, un maledetto e fottuto genio del calcio, il folletto di uno sport che di talenti così vive e si nutre. Che di gente così ha bisogno per vivere e sopravvivere.
Attaccanti così, in giro, non ce ne sono.
All’età di 8 anni Robbie gioca già contro i ragazzi nati anni prima, altrimenti non ci sarebbe gusto nel guardare quel funambolo in miniatura lá davanti contro i suoi parietá. Eppure, nonostante Fowler sia costretto a confrontarsi con ragazzi più grandi di lui, la musica non cambia per niente.
Anzi.
Il piccolo grande bambino si esalta di più nel giocare contro ragazzi che lo insultano e lo deridono per il solo fatto di essere più piccolo. Robbie non risponde alle loro provocazioni, e fa si che siano i suoi piedi fatati a parlare al posto suo.
‘Ricordo che molti mi dicevo ‘Nanetto. Non tornerai dalla mamma stasera’. Io non rispondevo. Appena arrivava palla mi giravo e puntavo chi mi aveva offeso e deriso e lo umiliavo con una serie di tunnel che lasciavano a bocca aperta gli altri suoi dieci compagni e che facevano partire dalla tribune degli ‘oooh’ ‘oooh’ di stupore e meraviglia che non facevano altro che galvanizzarmi. A fine partita, mentre andavano verso gli spogliatoi, e noi ovviamente avevamo vinto, mi avvicinavo a loro e dicevo ‘Visto il nanetto che bravo’ e subito dopo scappavo per paura che mi potessero prendere ed uccidere’ racconterà molti anni dopo in un’intervista con un sorriso beffardo, quel sorriso che dice ‘Vieni qua brutto stronzo. Vieni qua che facciamo a pugni’ e che dalla sua faccia non mancherà mai.
Il suo talento cresce partita dopo partita, allenamento dopo allenamento.
Ci fu però un momento preciso, in cui la sua ancora giovane carriera prese lo slancio definitivo verso il successo.
Un domenica, quando il piccolo Robbie aveva solo dieci anni ed il suo unico sogno era quello, un giorno, di portare l’Everton sul tetto più alto di Inghilterra e poi d’Europa, con la casacca della sua squadra, il Thorvald per l’esattezza, segnò seidici dei ventisei gol con cui la sua formazione umiliò quella rivale.
La notizia fa presto il giro di tutta la città ‘C’è un ragazzino a Toxteth fuori dal normale. Ha la faccia da schiaffi ed i piedi sudamericani. Si dice non sia vero, perché vince le partite da solo’.
Ogni settimana sempre più, gli spettatori incuriositi da quel centravanti dalle guance rosse aumentano a vista d’occhio.
La fama del piccolo Fowler arriva ben presto anche alle orecchie degli osservatori del Liverpool, in particolare a Sam Watson, che, non appena viene a conoscenza dell’esistenza di un simile prodigio, si mette in macchina e si catapulta nel quartiere di Robbie per assistere ad una sua partita.
Quel giorno, il futuro ‘God’ segna ‘solo’ quattro gol, ma questi sono comunque più che sufficienti per convincere i ‘reds’ a puntare dritto su di lui ‘Sapevo che Robbie era un piccolo bastardo tifoso dell’Everton, e che, nonostante l’età, non sarebbe stato per niente facile convincerlo a giocare per noi. Qua la fede è tutto. Ma ero comunque fiducioso di farcela. Conoscevo alcuni trucchetti. Cazzo, siamo il Liverpool’.
Ed infatti, alla fine, i ‘reds’, ce la fecero davvero.
All’età di undici anni, dopo un’estenuante operazione di convincimento, Robbie Fowler cede e firma per la squadra che odia di più al mondo. La squadra che li toglieva il sonno e la voglia di vivere, quella maledetta formazione che allo stesso tempo lo stimolava a raggiungere al più presto possibile la maglia dell’amato Everton, per segnargli contro un gol in rovesciata in un infuocato Merseyside derby che avrebbe, magari, condannato quegli odiati cugini all’inferno della serie cadetta.
La vita, però, purtroppo o per fortuna, molte volte non prende la stessa strada che i sogni calcano, che le speranze percorrono desiderose di arrivare in fretta alla meta.
Molte volte la realtà si arrampica su per pareti verticali, sfida il più ardente dei fuochi e combatte contro le belve più feroci del mondo, solo e soltanto per regalare al mondo ciò che lui non crede possibile.
Molte volte la vita fa di tutto, perché un bambino non insegua i suoi sogni. Magari per creargliene di nuovi. Magari per distruggerlo. Sicuramente, per non accontentarlo.
Nel caso di Robbie Fowler, e del football in genere, è stato solo e soltanto un bene.
‘Ricordo ancora il giorno in cui Watson suonó a casa mia e disse a mio padre ‘Sono qui per suo figlio. Mi manda il Liverpool’. Urlai un ‘fuck you’ che riecheggiò in tutto il quartiere.
Stiamo scherzando ?!
Il Liverpool?! Io li odiavo. Non ci potevo credere. Non potevo accettare.
Mio padre, invece, anche se tifoso ‘blues’ fino al midollo proprio come me, disse a Sam ‘Perché no?’.
Io corsi in camera mia.
Li ci vollero tre giorni a quei due per convincermi ad andare a fare quel benedetto provino.
Ancora oggi ringrazio il cielo e mio padre per avermi quasi costretto e spinto a farlo. Ancora oggi, devo tutto a lui’.
Ed anche noi lo ringraziano, caro Robbie. Perché da quel preciso momento, da quell’esatto istante in cui tuo padre, il terzo giorno in cui non volevi uscire dalla tua piccola e blu cameretta, ti chiese ‘Perché non provi?’ e tu accettasti quasi sfinito dalla sua insistenza, e da quella di Watson che chiamava a casa tua ogni 10 fottuti minuti, noi tutti amanti del calcio e del romanticismo del football, abbiamo potuto assistere ad una delle più assurde, incomprensibili e stupende storie d’amore che questo sport abbia mai concepito.
Un matrimonio che neanche il più roseo dei sogni voleva, e che invece la realtà, quella bastarda realtà che di accontentare i bambini proprio non ne vuol sapere, creò dal più completo ed assoluto niente.
Come un regalo agli amanti di questo sport ed a tutti quelli che amano le storie impossibili. Di quelle che le leggi e dici ‘Non può essere vero’. Ed invece..
Robbie diventa un ‘red’ e nelle giovanili del Liverpool incanta tutti per dedizione e classe. Contro i parietá segna così tante caterve di gol che a fine anno si fa fatica a contarli tutti.
Pian piano l’odio nel suo cuore si affievolisce sempre più, per poi svanire in luoghi dove le emozioni non possono arrivare.
Il Liverpool ha creduto in lui, e lui adesso, che ci crediate o no, ama il Liverpool.
Non ce più posto per nessuno. Posto per altri che non hanno mostrato interesse per lui.
C’è solo il rosso adesso.
Il blu sia maledetto.
Arriva così il 1993 e finalmente, all’età di 18 anni, il piccolo grande Robbie Fowler può entrare nel calcio dei grandi.
Ed il botto con cui si presenta dalla porta principale è a dir poco clamoroso. La partita in questione è col Fulham nella Charity Shield, all’epoca League Cup, nella quale, al primo match da titolare, segna qualcosa come cinque gol, diventando magicamente il quarto giocatore del Liverpool ad aver segnato una cinquina in una partita ufficiale. Scusate se è poco.
L’Inghilterra, dopo appena novanta misero minuti, è già ai suoi piedi. Ai piedi di un ragazzo che ha appena dicotto anni ed un talento pazzesco.
Quel ragazzo impertinente e coraggioso, che ha rinnegato il passato per fare l’amore col nemico, ha numeri che nessuno può mostrare. Che nessuno può vantare di avere.
Destro, sinistro, tocco morbo e botta secca. Piuma e ferro. Colpo di testa e magie col tacco. Tutto può fare Robbie da Toxteth. Tutto può e tutto per il Liverpool.
Dall’altra parte della città, c’è, invece, chi si dispera per il patrimonio nel quale non ha creduto e che ha visto soffiarsi dagli odiati rivali.
Forse sarebbe stato meglio dare un’occhiata a quei rapporti che arrivavano sulla scrivania, e che nessuno ha mai letto, con su scritto ‘URGENTE: FENOMENO’.
Bastava una telefonata. Un cenno. Un osservatore un attimo più scaltro, ed adesso Fowler sarebbe croce e delizia dell’Eveton. Non avrebbe opposto resistenza. Non avrebbe avuto un secondo di esitazione. Robbie non aspettava altro.
Ma invece tutto questo non è stato.
La differenza tra le squadre normali e le grandi sta tutta qua. Nella rapidità e nel crearsi un’occasione che forse neanche c’è.
Ecco che ora Robbie è un calciatore del Liverpool, e dell’Everton non gli frega più un bel cazzo di niente.
Anzi.
C’è quasi un senso di rivalsa, di vendetta, come un’amante sedotto ed abbandonato che adesso se la fa con il nemico di un vita e che aspetta di colpire alle spalle.
Fowler fa dannatamente sul serio.
Segna la sua prima rete in Premier il 16 ottobre quando regala un’insperata vittoria ai ‘reds’ all’87esimo contro l’Oldham.
Alla quinta giornata segna la sua prima tripletta contro il Southampton, diventando il più giovane calciatore inglese a segnare tre gol in Premier.
Nelle prime tredici giornate segna dodici gol.
Una media impressionante. Spaventosa. Da urlo.
La sua tecnica, man mano che il tempo passa, lascia spazio ad una concretezza ed ad un fiuto del gol senza precedenti.
Ogni palla in area di rigore è sua preda e lui, puntualmente, la trasforma in gol. Robbie capisce che la classe può attendere. Meglio la praticità e la freddezza.
Fowler è più puntuale di una cartella esattoriale.
La Kop ha il suo idolo, e Robbie finalmente è felice.
Felice davvero.
Felice della scelta, di quella maglia, di quello stemma che quando bacia dopo ogni gol sente trasmettere alle sue labbra ed alla sua anima una passione indescrivibile, una storia così leggendaria che in Europa sono veramente in pochi a poter vantare. Un scossa che accende e tinge sempre più quel cuore di rosso.
Rosso. Rosso. Rosso.
Quando Robbie bacia quel simbolo, una volta odiato con tutto se stesso, sente un’energia che li trapassa il corpo, che lo rende realmente vivo. Lo rende importante. Lo rende Robbie Fowler, il più grande talento che l’Inghiltetta ha mai avuto.
Non ce più l’Everton e la sua maledetta maglia blu del cazzo ad ingombare la sua mente. Il maledetto e perdente Everton è sparito. Sconfitto. È andato chissà dove, ed adesso nessuno lo piange più.
Non c’è più il sogno di quel bambino che come poster in cameretta aveva quello di Alan Ball e che nelle fredde notti d’inverno sperava di diventare l’idolo di Goodison Park e del popolo dei ‘toffees’.
Ora non c’è più niente di tutto questo. Un bel niente.
Ora c’è il Liverpool. La sua storia. La sua leggenda così maestosa che trasforma il tutto in uno uno stupendo stimolo. In onore. In un brivido che percorre una schiena infinite volte.
Adesso c’è quella maglietta che crea sogni, mentre prima, i sogni, li spegneva quasi tutti. Quando specialmente la squadra dei ‘Beatles’ spadroneggiava per l’Inghilterra intera, quando Grobbelaar e compagni facevano il bello ed il cattivo tempo, mentre tutti stavano a guardare impotenti.
Robbie ora lo sa.
Sa di essere dalla parte giusta della città.
Di aver scelto la fede esatta. Serviva solo che qualcuno gli aprisse gli occhi.
Robbie lo sa, e non vuole più scordarselo.
Arriva così la stagione 1994/95 che risulterà quella della consacrazione.
Contro l’Arsenal in League Cup, coppa che a fine stagione il Liverpool vincerá, Robbie segna la tripletta più veloce del calcio inglese: soltanto quattro minuti e trentatré secondi, un record che ancora oggi resiste senza troppi patemi. Nella stessa stagione viene proclamato miglior giovane dell’anno, così come nei successivi due anni [record eguagliato solo da Ryan Giggs e Wayne Rooney].
Nel 1997 segna trenta gol stagionali [mai nessuno come lui in maglia red, fino all’arrivo di Suarez] diventando, agli occhi di tutti, il più grande finalizzatore che ci sia in Premier. Solo Shearer è grande tanto quanto lui. Solo Alan e niente più.
Insieme a Steve McManaman forma una coppia affiatatissima, sia sul campo, con fraseggi pazzeschi ed esultanze storiche [una di queste vedeva i due correre alla bandierina, dopo un gol, ed indicare l orologio, come a dire ‘Anche oggi puntuali per la rete’], sia fuori dal campo, dove ben presto i due, insieme ai compagni Jamie Redknapp, Stan Collymore e David James, vengono chiamati ‘Spice Boys’, per via del loro fascino da playboys che fa impazzire tutte le ragazze della città.
Robbie ormai è l’idolo della Kop, l’odiata Kop ora finalmente sua, la curva che adesso lo chiama ‘God’, ‘Dio’ e che per lui ha addirittura cambiato lo storico inno ‘You’ll Never Walk Alone’ in ‘You’ll Never Score Alone’.
Tutto grazie alle sue giocate pazzesche ed ai suoi gol più puntuali della morte quando decide di arrivare e presentare il suo conto assai salato.
C’è una partita in particolare che consacra realmente Fowler e che lo legherà indissolubilmente per la prima volta ad Anfield, un legame così forte che niente e nessuno potrà più dividere ‘God’ dai suoi discepoli.
3 aprile 1996
Liverpool-Newcastle.
I ‘magpies’ sono in pieno corsa per il titolo.
Serve una vittoria ai bianconeri per rimanere in vantaggio sul Manchester United e non farsi superare dai ‘red devils’. Il Liverpool, invece, non ha obbiettivi concreti, se non quello di far valere e difendere il proprio onore.
I reds partono furiosi e trovano il gol con la testa di Fowler che svetta piu alta di tutte le altre dopo neanche due minuti.
La reazione del Newcastle è veemente e Ferdinand pareggia al decimo.
I bianconeri sono più forti e lo dimostrano: al quattordicesimo Ginola segna la rete che ribalta il match.
Il Liverpool, però, non ci sta.
Anfield va difeso ad ogni costo. Bisogna lottare. Bisogna sputare il sangue anche se la stagione ormai è andata.
La squadra di casa si butta a testa bassa verso il pareggio che arriva al 55esimo con un destro secco di Fowler, il primo a combattere e l’ultimo ad arrendersi. I tifosi lo sentono. La Kop esplode al gol e per la prima volta, verso quel ragazzo di appena 21 anni, viene urlato a squarciagola ‘God, God, God’.
‘Ricordo perfettamente il momento. Fu come se le loro anime entrassero dentro di me per non andarsene mai più’.
Robbie Fowler era finalmente leggenda.
In quel momento nacque una stella.
La partita terminerà 4-3 per i reds, con gol del 2-3 di Faustino Asprilla e con la doppietta di Collymore che al 92esimo trova il gol che non permetterà praticamente al Newcastle di vincere quel titolo che manca dal lontanissimo 1924.
Fu un match talmente bello e spettacolare che la partita in questione, quella tra reds e magpies appunto, fu considerata la partita più bella di quella decade.
Robbie è l’idolo dei tifosi rossi, mentre quelli blu, quelli che prima amava tanto, adesso lo odiano, se possibile, ancor più della maglia che indossa.
Lo chiamano ‘traditore’, gli urlano ‘drogato’. Il loro odio non ha precedenti.
Fowler se ne frega e continua a fare le fortuna del suo club, segnando decine di gol e facendo ingrossare i fegati dei cugini gelosi e sfogati.
A dicembre del 1996, con un poker al Middlesbrough raggiune quota cento gol ad appena 21 anni.
Mostruoso. Pazzesco. Incredibile.
Robbie è un rapace d’area come mai l’Inghilterra ha avuto.
È un cecchino letale che trasforma in oro ogni palla che passa ad almeno due metri da lui: Fowler la arpiona, la modella, guarda la porta e tira. Il gol, poi, arriva sempre.
Non ce pietà per i poveri portieri nel suo cuore.
La sua popolarità in tutto il regno unito è a livelli mai registrati prima.
Il suo popolo, quello una volta sbagliato ed adesso giusto, quello che lui ricopriva di ‘suck’ e ‘fuck’ ogni qual volta il suo, ex, Everton perdeva, come da copione, un ‘Merseyside derby’, adesso lo adora. E questo amore è ricambiato, tanto che ben presto Robbie si fa portavoce anche dei problemi della popolazione della città ed in particolare di un gruppo di lavoratori, tifosi del Liverpool, licenziati ingiustamente dal porto cittadino, e che Fowler prende così tanto a cuore da mostrare un maglia solidale nei loro confronti dopo un gol in ‘Coppa delle Coppe’ nel 1997.
Robbie è il Re della città ed il Dio della Kop.
La sua popolarità è così alta a Liverpool che i tifosi lo aiutano a nascondere le sue frequentissime uscite notturne per i pub dei quartieri. Tutti sono così pazzi di lui che gli regalerebbero persino la propria auto con la loro fidanzata dentro se solo lui glielo chiedesse. Robbie ama la bella vita così come ama le belle donne. I fan lo capiscono, e fanno finta di niente.
Arriva poi il 1998 ed iniziano, ahimè, i problemi.
Un infortunio lo tiene fuori praticamente per sei mesi. Al ritorno in campo, purtroppo, qualcosa si è rotto.
Nel derby del Merseyside dell’aprile del 1999 segna alla sua ex amante su rigore e dopo la rete si china sulla linea di fondo campo fingendo di sniffarla, rispondendo così alle allusioni dei ‘Toffees’ su un suo presunto e sospetto uso di cocaina. Ciò che da bambino sembrava impensabile, adesso è realtà. Robbie prova piacere ad umiliare l’Everton. Prova piacere a vederli piangere e scoppiare di rabbia per colpa sua, tanto che, dopo essersi alzato da quel ‘consumo legale di gesso’ si volta verso il settore blu e apre le braccia in segno di vittoria. Fowler si prende la rivincita che merita, ma questa esultanza ‘pittoresca’ gli costa quattro giornate di stop e 60.000 sterline di multa. Un piccolo conto da pagare per una grande soddisfazione. Una volta scontata la squalifica, il suo carattere ribelle si manifesta di nuovo sul campo verde: in una partita col Chelsea risponde a degli interventi duri del ‘blues’ Le Saux mostandoli più volte il sedere, insinuando ad una presunta omosessualità del difensore londinese. I due arrivano quasi alle mani e Robbie viene squalificato per altre due giornate.
È un periodo buio per lui, nel quale parlano più le sue bravate che i suoi gol. Le risse dei pub lo vedono sempre più protagonista, e,
come se non bastasse, in quel periodo, si sta affacciando al calcio un certo Michael Owen che di li a poco, insieme a Emile Heskey formerà la coppia titolare del Liverpool.
Fowler non fa ploemiche e si riprenderà la rivincita con gli interessi nella stagione 2000/01 quando trascina i suoi amati ‘reds’ ad uno storico treble: Charity Shield, FA Cup e Coppa UEFA, quest’ultima vinta ai supplementari, grazie al ‘golden gol’ su autogol di Geli, dopo una finale pazzesca contro l’Alaves conclusasi 5-4 e dove ‘God’ segnò il gol del momentaneo 4-3.
Ma ormai nel Liverpool di Houllier non c’è più spazio per lui, tanto che a fine campionato, lascerà la squadra con le lacrime agli occhi e con delle parole al veleno per quello che ormai era il suo ex allenatore ‘Quei trofei li abbiamo vinto noi. Houllier è così perdente che una sua squadra non vincerebbe neanche se giocasse da sola e potrebbe usare pure le mani’.
Inizia così un lungo pellegrinare che porterà Robbie a vestire le maglie di Leeds e Mancheter City.
La sua mente però, in realtà, non lascerà mai Liverpool, tanto che, alla fine di ogni partita che disputa, appena rientrato negli sposgliatoi, chiede immediatamente quanto sia finito il match dei ‘reds’, proprio come fa un buon ragazzo della Kop che si rispetti.
Il richiamo è così pressante che nel 2006, dopo più di cinque anni, Robbie, ormai trentunenne, torna a vestire la vera maglia del suo cuore, della sua vita. Per salutare degnamente quei tifosi e quella gente che non aveva fatto in tempo a ringraziare la volta prima.
A fine stagione se ne andrà ancora. Stavolta per sempre.
Stavolta è la fine. La fine di una storia d’amore che la vita non creerà mai più. Robbie non calcherà più Anfield se non da avversario, ma mai da nemico.
Perché, una volta che la vita ha scoperto le sue carte ed ha mostrato veramente la tua fede, tu non puoi più tradirla. Robbie Fowler compreso.
Il ragazzo guerriero e ballerino allo stesso tempo, che lá davanti si trasformava in in incubo per il portiere domenicale di turno. Colui che nel 1997 vinse il premio Fair Paly per aver deliberatamente confessato all’arbitro di essersi buttato durante un contatto con Seaman dell’Arsenal. Il direttore di gara, però, incredibilmente, non gli credette e assegnò ugualmente la rete. La leggenda narra che poi Robbie sbagliò volontariamente il penalty.
Poco importa. Difficile credere a Fowler anche quando dice la verità.
Perché Robbie è capace di tutto. Dell’impossibile e oltre. Così come i suoi piedi, così come la sua enorme ed impareggiabile classe, che lo ha accompagnato per tutta la sua vita, e la sua incredibile testa di cazzo gli suggeriscono. Capace di miracoli e di creare l’impensabile, proprio come dichiarò un monumento del calcio mondiale come Brian Clough che, pochi mesi prima di morire, disse ‘È l’unico che, vedendolo giocare, mi ha fatto tifare più di una volta Leeds United’.
Magia. Poesia. O semplicemente la misericordia di un ragazzo divino che regala l’impensabile e che nonostante sia nato nell’epoca che non gli spettava, nonostante sia vissuto e cresciuto con l’Everton nel cuore e nonostante la vita gli abbia messo davanti tutti gli ostacoli possibili ed immaginabili, è riuscito nell’impresa storica di diventare una leggenda del Liverpool, un simbolo della Kop, il muro umano che ad Anfield detta legge e che lo proclamò addirittura ‘Dio’. Il loro Dio. Il Dio di un popolo che lo amava e idolatrava proprio come se fosse sempre stato uno di loro, perdonandogli tutto, anche quel passato da perdente. E magari, alla fine, è proprio così che è andata. Robbie è sempre stato un ‘reds’. Doveva solo scoprirlo. C’ha pensato allora la vita e la sua fantasia a farglielo capire. C’ha pensato il destino e le sue strade nascoste e tortuose. C’ha pensato il calcio ed il suo romanticismo che neanche Shakespeare avrebbe mai potuto narrare.
Viva Fowler allora. Viva il Football e la sua poesia. Viva la storia di un ragazzo che amava l’Everton e che quelli del Liverpool chiamarono, denza pensarci troppo, ‘God’.
Il loro Dio e di nessun altro.
Nessun cuore più rosso degli altri creperà nel non vederlo correre per Anfield. Nessuna lacrima solcherà un viso triste anche adesso che lui non segna più sotto di loro. Perchè tutto questo ormai è religione, è passione, è sesso nella mente e nel corpo. Sono cose, che perfino il cannibale Suarez non può distruggere, annientare a suon di gol. Nessuno potrá mai farlo, mi dispiace. Ci sarà per sempre ‘God Fowler’ ed il suo popolo di credenti ossequiosi là nella città delle case dai mattoncini rossi.
Tutto sará eterno, e niente più.
You’ll Never Score Alone, Robbie.
Anche adesso che un uruguaiano prova a cancellare la tua memoria, sappi che non potrà mai risuscirci.
Almeno questo la vita te lo deve. Ovunque tu sia, dovunque tu stia guardando il culo di qualche bella signorina per poi chiedergli ‘Scusi, quanto ha fatto il Liverpool?’ Sempre.
Non segnerai mai solo, Robbie.
Non camminerai mai solo.
Mai
You’ll Never Walk Alone.

1: http://m.youtube.com/watch?v=3g5fmQj92p4

2: http://m.youtube.com/watch?v=IYEMa465re0

3: http://m.youtube.com/watch?v=aQ1BodACZkQ

4: http://m.youtube.com/watch?v=PPjQW0lSanY

 Eternamente Ryan Giggs..

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Dodici.
Il numero perfetto per una squadra di calcio, a mio avviso, è il dodici.
Non l’undici.
No.
E neanche il cinque, l’otto od il venti, ma il dodici.
Stop.
L’ho sempre pensato e, forse, lo penso ancora adesso, a distanza di anni ed anni.
Non so bene dall’alto di quale convinzione, ma non posso farne a meno.
Ho sempre creduto che a questo sport magnifico, nato nella terra d’Albione più di un secolo fa, che a questo sport che molto dá e tantissimo toglie a chiunque decida di sposarlo per tutta la sua stupenda e bastarda vita, che a questo sport, uno sport maledetto, perchè una volta che ti ha rubato il sonno non te lo ridarà mai più, per essere veramente il gioco degli angeli, quello che in Paradiso, Dio, guardandolo con una bella birra ghiacciata tra le mani possa dire compiaciuto ‘Però! Ho creato proprio un bello spettacolo’, per arrivare a questi livelli qua, a mio avviso, ha bisogno di un uomo in più per ogni formazione.
Mancano due calciatori su quel campo incandescente. Due uomini da schierare in più ogni benedetta domenica.
Ecco cosa mi chiedevo, da buon malato quale sono, mentre vedevo varie partite ‘E se aggiungessimo un calciatore a squadra, che succederebbe lá in mezzo? Quali paurose conseguenze ne scaturirebbero ? Forse ci sarebbero più sbocchi offensivi e più copertura lá dietro? Forse a centrocampo ci sarebbe la tanto famigerata ‘superiorità numerica’, quella che moltissimi allenatori vanno cercando ad ogni match?’.
Mentre mi trovavo nel bel mezzo di questo mio, e solo mio, delirio tattico-tecnico, subito pensavo, però, che, alla fine, questa assurda follia che stava nascendo, lenta ma inesorabile, nella mia mente, altro non era che un pensiero senza minimamente nessun fondamento.
Un’idea che sfociava nel niente più totale.
Tutto questo riflettere, capii ben presto, che altro, però, non era che il classico cane che si mordeva la coda.
Il classico ‘girare in tondo’ all’infinito. Il classico ‘circolo vizioso’.
Si perché se, ad esempio, ad una squadra sarebbe bastato aggiungere un attaccante lá davanti, per dare magari più peso o più imprevedibilità al gioco offensivo, più frizzantezza ad una manovra magari un po’ statica e prevedibile , è vero anche che, dall’altra parte, quella cioè costretta a difendersi, sarebbe bastato, soltanto, l’inserimento di un difensore in più per riequilibrare il tutto e rendere vana ed insensata questa mia teoria all’apparenza romantica ed affascinante, ma, alla pratica, inutile e sterile.
Questa mia soluzione sembrava l’ideale soltanto per quegli allenatori costretti a lasciare fuori la rosa titolare un giocatore veramente forte, magari indispensabile, magari importante e fondamentale, ma che non si sposava perfettamente con il modulo tattico o che, semplicemente, era soltanto incapace di togliere posto ad altri compagni, più duttili e freschi di lui.
Peensate allora che bellezza sarebbe stato vedere squadre in Europa presentarsi in campi nemici, traboccanti di odio e passione, con spavaldi 4-4-3, 3-5-3, 4-2-3-2, 4-3-4, come a dire ‘Non abbiamo paura di voi’.
Oppure, magari, se l’allenatore fosse stato un inguaribile codardo catenacciaro, che del risultato se ne sbatte altamente i coglioni, e punta dritto al risultato minimo utile più facilmente raggiungibile, si sarebbe presentato in templi del calcio con arroccati, e vergognosi, 5-5-1, 6-4-1, 4-6-1.
Puro delirio. Pura fantasia ed irrazionalità nata nei meandri della mia testa malata, solo e soltanto per appagare dubbi e paure, speranze e sogni di vedere insieme più campioni, più piedi buoni possibili.
Ci fu sopratutto un momento preciso, ricordo ancora come se fosse oggi, in cui pensai per la prima volta questa mia stupida idea: fu un giorno di Novembre.
Una domenica di quelle in cui il cielo non smette un secondo di piangere e tu sei costretto, per fortuna direi, a startene tutto il santo giorno su quel divano a guardare ‘fùtbol’ ed a mangiare schifezze di ogni tipo.
Fu un giorno in cui, per pochissimo tempo, riuscii a vedere giocare insieme due dei miei maggiori miti.
Due simboli a cui mi sono sempre, senza riuscirci, inspirato.
‘Togheter’.
Due leggende che si completavano ed anestetizzavano il mio cuore come un meraviglioso, unico, placebo: Lee Sharpe e Ryan Giggs.
Fu un attimo, un secondo di luce abbagliante che squarciò il mio modo di concepire e pensare il calcio.
Fu solo una frazione che cambiò il mio credo.
Non potevo più tornare indietro.
No.
Per la prima volta si mostrarono, davanti ai miei occhi, insieme, due ali sinistre magnifiche, fortissime, quasi incantevoli.
Fu in quel preciso istante che pensai ‘Perché il calcio non si gioca in 12 uomini? Perché?’
Perché non ci posso essere due uomini per uno stesso ruolo?’
Ryan e Lee, Lee e Ryan.
Due calciatori troppo forti per giocare nella stessa squadra. Nello stesso ruolo. Sulla stessa dannata fascia.
Due campioni così incredibili che la storia ne ha potuto scegliere solo uno da donare all’immortalità dei tempi.
Due piedi sinistri così fatati che sembravano più usciti da una favola da raccontare ai bambini prima di dormire, piuttosto che due ferri del mestiere con cui quei due ragazzi portavano il pane a casa.
Entrambi, però, non sarebbero potuti stare lassù, insieme, nell’Olimpo calcistico.
Nel Phanteon del fùtbol.
Tra le preghiere dei tifosi e le imprecazioni degli allenatori rivali, così gelosi di giocatori del genere. Così arrabbiati di non averli li con loro.
Solo uno di loro, ben presto, sarebbe potuto rimanere eterno.
Sappiamo tutti chi ha vinto tra Ryan e Lee.
Meritatamente o no, non sta a noi sceglierlo.
Va detto però, per correttezza, che un ruolo determinante, anzi pesantissimo, in questa scelta, l’ha avuto la sfortuna.
Nera, bastarda e malefica come un buco di culo che non ha mai visto nè sapone nè acqua. Ma solo merda.
Infame come un traditore che fa della schiena amica il suo campo di battaglia preferita. Il suo habitat naturale sul quale tradire amicizie e fiducia.
Speranze e sogni.
Proprio come quelli di Lee.
Spazzati via per colpa di un qualcosa non tangibile, non percepibile.
Per colpa del destino più atroce di una realtá giá fin troppo bastarda. Per colpa di una Dea non bendata, ma bensì furba, che invece di fare la cieca, e scegliere le sue prede a caso, ci vedeva benissimo ed ignorava volutamente, voltando il suo sguardo, quel maledetto e dannato ragazzino inglese di Halesowen.
Lee Sharpe, il fortissimo Lee, classe 1971 e considerato da molti un vero e proprio fenomeno del suo ruolo, di quelle che fanno scuola, fanno storia e che ben presto il tempo si ricorderà.
Approda allo United nel 1988 dopo solo 6 partite nelle giovanili del Torquay.
Un trasferimento che fa scandalo, vista la cifra che il Manchester è disposta a sborsare per assicurarselo.
300.000 sterline, tanto sir Alex Ferguson decide di tirare fuori dalla sua tasca per arrivare per primo su quel terzino sinistro che, nei suoi sogni, ben presto diventerà un’ala formidabile che compierà le più bieche razzie la davanti.
Tale cifra sarà per anni un record per quanto riguarda i trasferimento dei giovani calciatori.
Record giusti, per un bambino prodigio.
Al suo arrivo in maglia rossa, per la prima volta, viene coniato, dai media e dai tifosi, il termine [maledetto] ‘nuovo Best’, anche se la fascia di competenza dell’ex idolo dell’Old Trafford era l’altra.
14 anni.
Dopo 14 anni dalla partenza del ‘Dio nordirlandese’ dai ‘diavoli rossi’, forse i tempi erano maturi sul serio per cercare nuovi idoli, nuove leggende che diventassero, anch’esse, immortali sul quel campo, in quello stadio che una volta Georgie e gli altri due componenti della ‘Santa Trinità’, Bobby e Denis, solcavano ed ammaliavano, fino a portarlo sul tetto d’Europa.
Forse era giunto il momento di tagliare quel cordone ombelicale con un passato che faceva davvereo male.
Troppo.
Per tornare a volare, meglio voltare pagina.
Come sappiamo, di idoli, di ‘Dei’ da pregare ed osannare nelle notti di pioggia in cui i fulmini fanno paura, in cui i tuoni fanno tremare le finestre, e non hai nessuno accanto da stringere forte, e pensi che al mondo c’è solo lei, la tua squadra del cuore, con i suoi condottieri magici, i suoi eroi in pantaloncini e calzettoni, di li a molto poco, Manchester ne avrà l’imbarazzo della scelta, quasi a non poterli neanche ricordare tutti.
Uno di questi, di quelli quasi caduti nel dimenticatoio, ahimè, è proprio il fenomeno Lee.
Eppure l’impatto di Sharpe con la maglia rossa è assolutamente impressionante: appena arrivato, 17enne e niente più, diventa titolare praticamente inamovibile nello scacchiere del condottiero scozzese dalla faccia placida ma dal sangue bollente.
Sharpe ci mette poco più di un attimo per entrare nei cuori dei suoi tifosi, come se i suoi piedi avessero qualcosa di magnetico dai quali i comuni mortali non riescono proprio a distogliere il loro sporco sguardo: la fascia sinistra è il suo territorio di caccia, lui la percorre più e più volte da cima a fondo, come se ne fosse il padrone, insensibile alle richieste avversarie che domandono, cortesemente o meno, permesso di agire. Lee non risponde, fa orecchie da mercante e continua ad arare quel pezzo di terra così profondamente che, se solo qualche illuminato spettatore avesse la brillante idea di portare dei semi alla partita, per poi gettarli in quel fazzoletto di campo, ben presto ad Old Trafford la gente si nutrirebbe di arance e ciliegie e nessuno, con davanti quegli alberi, potrebbe vedere un cazzo di niente.
Il contributo di Sharpe alla causa rossa è determinante: inserimenti da dietro che aprono letteralmente in due le squadre troppo chiuse, incroci con le punte per creare superiorità numerica ed arginare le difese ermetiche, un tiro impressionante, preciso e potente allo stesso tempo, tanto che, il più delle volte, i portieri neanche provano a buttarsi quando il bel Lee decide di scagliare la sua sentenza.
Ben presto, sir Alex, capisce che quelle conclusioni dalla distanza, possono diventare un’arma micidiale per portare a casa il bottino pieno.
Una partita in particolare, però, consacra quel bel ragazzo dagli occhi blu, ed allo stesso tempo lo rende immortale, indimenticabile, indelebile nei cuori di quella gente che vive e respira calcio da molto prima che lui nascesse, ma che adesso, senza di lui, proprio non può vivere.
28 Novembre 1990.
Capital One Cup, all’epoca Rumbelows Cup.
Più comunemente ‘Coppa di Lega’.
Arsenal-Manchester United.
Highbury indossa il suo abito migliore, quello più elegante che possiede nel suo armadio centenario, e, vestito a festa, è pronto a stritolare ed uccidere quei maledetti diavoli rossi.
Purtroppo per i tifosi dei ‘gunners’, quel giorno, però, la compagine di Alexander Ferguson, non ha proprio nessuna voglia di fare la vittima sacrificale ad una tragedia già annunciata.
Non ha assolutamente nessuna intenzione di far passare, agli annali, quella partita come ‘scampagnata nella capitale’, come ‘gita a Londra’,.
Il Manchester United non ha niente di tutto questo in mente.
Anzi.
I famigerati ‘red devils’, vincitori l’anno prima della FA Cup e della Charity Shield, partono fortissimo e dopo pochi minuti sono già avanti di due gol.
Highbury rimane impietrito.
Lo United fa ciò che vuole.
Serve però la giocata finale, quella che serve per chiudere la parita, l’azione che uccida il match, ‘the shot killer’, il tiro che dica ‘au revoir’, con tanto di colletto alzato in faccia alla presunzione dei londinesi.
E questo, puntualmente, arriva.
Tocca alla classe innata di Lee Sharpe chiudere i conti di un match tutt’altro che scontato alla vigilia.
L’ala sinistra intercetta palla sulla fascia di sua competenza, salta un avversario, si accentra fino al limite dell’area e fa partire un tiro di destro, non proprio il suo piede, preciso e potente che si infila perfettamente all’incrocio, con tanti saluti ai ragazzi di Woolwich ed all’orologio che sovrasta Highbury, il famoso ‘Clock End’.
Un gol strepitoso, bellissimo, fantastico che porta il risultato sul 3-0.
Sharpe è l’arma in più.
Sharpe è l’ala che tutti vorrebbero.
Sembra finita.
Ma così non è.
L’Arsenal, da grande squadra qual’è, ha un colpo di coda, un ritorno d’orgoglio tipico delle squadre meravigliose, così che, i ‘gunners ‘, riescono a segnare due reti e riaprire clamorosamente il match in pochi minuti.
Il Manchester subisce il colpo.
Lo United, adesso, ha paura.
Ben presto Highbury diventa un calderone infernale che, nonostante sia pieno inverno, sembra sul punto di autocombustionarsi da un momento all’altro.
L’Arsenal preme, ma scopre, inevitabilmente, il fianco a ripartenze micidiali, a spine pronte a conficcarsi nel culo per far saltare il banco, tipiche del miglior catenaccio italiano.
Al 65 esimo lo United riparte velocissimo sulla destra, Mark Hughes crossa in mezzo per l’accorrente Sharpe che taglia benissimo in mezzo e di testa ristabilisce distanze e gerarchie.
È il colpo finale.
Decisivo.
I biancorossi non ne hanno più. Non reagiscono neanche a quella mazzata e ben presto cadono in bambola.
Lo United fa quel che vuole e di li a poco dilagherà. Ancora Hughes, all’80esimo, scappa veloce per vie centrali, serve il pallone in in profondità dove ancora Sharpe, e ancora di destro, segna l’ennesimo gol del match ed una tripletta personale da consegnare direttamente alla storia del calcio e del suo glorioso club.
Lee non poteva proprio omaggiare meglio la gloriosa numero 7, la pesantissima numero 7, l’eterna 7 che fu dell’immenso George Best e che, quella sera, posava sulle sue spalle.
La partita si concluderà 2-6 e l’umiliazione aleggerà ad Highughry per molto, moltissimo tempo.
Il Manchester United vola spedito verso una nuova era, ed i frutti di quel lavoro strepitoso, tutto ad opera di Alex Ferguson, si vedranno già a fine stagione, quando, sul neutro di Rotterdam, i ‘diavoli rossi’ sconfiggeranno per 2-1 il Barcellona in finale di Coppa delle Coppe con una doppietta di Hughes ed una prestazione strepitosa da parte di Lee e compagni.
Old Trafford ha un nuovo idolo.
Sharpe segna che è una bellezza, fa segnare e la sua famosissima esultanza, la cosiddetta ‘Sharpie Shuffle’, che consisteva nel piegare la bandierina e cantare in stile Elvis Presley, diventa una vera e propria moda in tutta Inghilterra.
Una delle prime esultanze ‘mondiali’.
Non c’è ragazzino che, ai tempi, dopo un gol contro una porta dipinta su mattoncini rossi nel proprio quartiere, non esulti in quella maniera, con o senza bandierina da maltrattare, tifoso o meno dello United.
Si perchè,m Sharpe, ormai, è internazionale. È un’icona del calcio in generale.
La Nazionale dei Tre Leoni confida molto in lui, ed il Manchester crede di aver trovato, finalmente, il nuovo Best, ma così, purtroppo o per fortuna, vista come andrà poi la storia, non è.
Ben presto la vita notturna corrompe il bel Lee, giovane calciatore ambito da sponsor e passerelle, così che, di li a poco, Sharpie diventa testimonial di molti prodotti ed iniziative e sostituisce, sempre più, il campo da calcio con i più comodi e rilassanti divanetti dei piú vari e disparati ‘nightclubs’ della nazione.
Lee, purtroppo, pian piano, diventa sempre più ‘il nuovo Best’, ma non tanto per le magie sul campo di gioco, bensì per la vita spericolata che la piccola promessa ha deciso di intraprendere al di fuori.
Come se non bastasse, come se non fosse sufficiente la sua enorme stupidità che pian piano li stava facendo bruciare un patrimonio spaventoso, buttandolo nel cesso più sporco di Inghiltera, non curante di quel che quei piedi potevano regalare al Manchester ed al calcio in generale, persino la sfortuna decise di frapporrsi tra Lee e la sua carriera.
La sorte si accanì contro quel ventenne cresciuto troppo presto, quel ragazzo che ha conosciuto fama e ricchezza ad una velocità pazzesca, scherzando con loro, non curante che il tutto, di li a poco, li sarebbe, ahimè, sfuggito dalle mani.
E così, il pupillo di sir Alex Ferguson, più sfortunato di Paperino dopo la rottura di uno specchio, viene colpito alle spalle da un nemico tanto infame quanto meschino: una meningite virale che lo costringe lontano dai campi per quasi un anno.
Incredibile.
Scalogna più assurda.
La carriera di Lee, adesso, è veramente a rischio. Sospesa sopra di un filo sottilissimo, legata ad un destino che nessuno può decidere, che nessuno può scegliere di cambiare o sconfiggere.
Un nemico così subdolo, che neanche un film potrebbe disegnarlo così bene.
La vita di Sharpie, di li a poco, è costretta a combattere contro un nemico invisibile, non tangibile, bastardo e vigliacco, che manifesta la sua presenza una volta dopo l’attacco.
Sharpe comunque è un ragazzo forte, si allena anche durante la malattia e non perde mai il sorriso.
Purtroppo per lui, però, mentre combatte contro quel virus maledetto, il ‘Dio’ del calcio sta plasmando altre vite. Sta portando avanti la sua creatura, fregandosene altamente di Lee e della sua sofferenza, sbattendosene il cazzo del fatto che un ragazzo di appena venti anni, che si, non sará stato certo un esempio di vita idilliaca, ma questo di fronte a certo drammi non importa, sta vedendo sfuggire sempre più quel sogno che gli umani chiamano gloria.
E così, una volta rientrato, una volta che la sua tenacia è riuscita a sconfiggere quella bastarda malattia, senza cuore e corpo, trova il suo posto, quella fascia sinistra arata per mesi, coltivata con giocate e tocchi deliziosi, baciata con quei piedi come se fosse un’amante focosa, occupato da un ragazzino di un paio d’anni più giovane di lui, un certo Ryan Giggs, un nome che di li a poco scriverà pagine di questo sport così indelebili, che i tifosi scriveranno sulla loro pelle insieme a quel famoso numero 11, tatueranno sul loro petto il suo volto, come se quell’ammasso di fans deliranti non fossero altro che i suoi genitori, i padri di quel figlio che ognuno vorrebbe avere e che adesso, sul loro corpo, portano con se.
Il giovane Ryan aveva esordito l’anno prima, per l’esattezza il 2 marzo del 1991 contro l’Everton, sostituendo un’icona come Denis Irwin, al 23esimo della ripresa.
Da quel preciso momento in poi, il calcio non potrà più fare a meno di li.
La leggenda, poteva cominciare.
I bambini, dopo quell’esordio, dopo quelle quattro mani che si davano il cambio in una partita contro l’Everton, tra un campione ed uno sbarbato ragazzino, non potranno non pensare, ogni qualvolta azzeccano un dribbling assurdo, ogni qualvolta il loro sinistro disegna parabole così inesorabili che l’occhio non riesce a spiegare al cervello quel che ha visto, che loro si sono avvicinati a Ryan Giggs.
L’unico che, però, purtroppo, non potrà amare mai fino in fondo quel leggendario gallese volante, sarà proprio Lee Sharpe, il giovane che si è visto spogliato della sua maglia e derubato della sua zona.
Un po’ per colpa del virus maledetto, un po’ per colpa di quei piedi più educati dei suoi.
Ferguson non vuole comunque perdere il talento del ragazzo e, una volta tornato dalla malattia, posiziona Sharpie in altre posizioni del campo: o terzino sinistro o ala destra, posto che, però, deve contendersi con Kancelskils.
Lee, sempre più, finisce in panchina.
È la mazzata definitiva.
Sharpe non si riprenderà mai più.
Non riuscirà più a dimostrare veramente il suo enorme talento, il suo assurdo modo di distruggere avversari e stadi avversi come se fossero fatti di carte una sopra l’altra.
Ormai, la storia, ha deciso altro. Ha un altro nome in testa.
Ormai i testi sacri di questo sport hanno già il loro ‘Dio’, il loro fenomeno da consacrare, da rendere immortale e da mostrare a decide di generazioni.
E non è Sharpe.
Si, perché da quel giorno di marzo del 1991 in poi, Ryan Giggs non smetterà più di stupire il mondo.
Mai più.
‘God Save The Giggs’.
Il gallese diventa quasi da subito un punto inamovibile nella formazione di sir Alex Ferguson, il genio che lo ha scovato nelle giovanili degli odiati ‘vicini rumorosi’ del Manchester City, strappandoglielo letteralmente dalle mani e mettendo sotto contratto, non ancora quindicenne, uno dei calciatori più forti di sempre.
C’è chi giura che Sharpe, potenzialmente, fosse stato e sarebbe potuto essere ancora più forte di Giggs.
Ma questo non basta.
Questo non serve.
Sui libri di scuola, nelle preghiere di chi di calcio si nutre e vive, piange e sorride, di chi pensa al football ogni secondo della sua vita, di chi va a letto sognando partite migliori, c’è solo e soltanto lui ormai, Ryan Joseph Giggs.
Sicuramente più continuo e più professionista di quel ragazzo corrotto e malato che era Lee.
Giggs gioca semplice, per questo il suo modo di concepire il calcio sembra così difficile, così impossibile da raggiungere, così difficile da imitare e da trovare in altri parti del mondo.
Ryan fa quello che deve fare, senza esagerare.
Mai.
Mai un dribbling di troppo, un passaggio dettato un paio di secondi dopo, mai un tiro ad effetto quando non ce nè bisogno. Mai una sceneggiata, una pettinatura a coglione od una polemica fine a se stessa.
Solo il calcio scorre nelle sue vene, molto di più di quello che c’è nelle ossa di ognuno di noi.
Ryan corre, salta avversari come se fossero sagome immobili di un poligono abbandonato e crossa così preciso che anche un goniometro, se solo potesse, andrebbe a ripetizione da lui.
Se Giggs fosse un joystick,
se fosse un calciatore di qualche videogame, non avrebbe bisogno nè analogico nè tantomeno di assurde combinazioni di tasti.
Ryan avrebbe solo la X di un passaggio vellutato, il triangolo di una profondità dettata e quasi consigliata al compagno, un O magico che sa esattamente quando mettere in mezzo quei cross vellutati e tesi allo stesso tempo, un quadrato mai banale, di un tiro mai cercato per forza, per egoismo o calibrato malamente.
Ryan sarebbe semplice, dotato solo e soltanto di un tasto R1 quasi consumato del tutto.
Perché Ryan corre.
Corre e corre senza fermarsi.
Fregandosene di chi c’è dietro e di chi ha davanti.
Saltando tutti alla stessa maniera, con lo stesso rispetto e la stessa semplicità che quasi diventa un onore essere stati dribblati da lui, essere stati umiliati con simili cambi di direzione che neanche un gatto saprebbe eseguire in maniera così perfetta.
Essere ‘saltati da Ryan’ diventa un gruppo a cui ben presto tutta l’Inghilterra prende parte.
Giggs ara la sua fascia sinistra incurante di quel povero giardiniere che ad Old Trafford è costretto a straordinari su straordinari per rizolare quasi incessantemente quel pezzo di terra maledetta.
Ryan in poco più di un secondo diventa un mito, un simbolo intero che lo United, ma direi anche, senza problemi, tutto il Regno Unito, tutta la ‘Union Jack’ riunita, sfoggia al mondo con orgoglio come a dire ‘Ce l’abbiamo solo noi’.
‘La prima volta che vidi Ryan pensai: non è il calcio che si è impossessato di lui. È lui che ha impossessato il calcio’ dirà di lui, un giorno, il suo scopritore, la leggenda scozzese Sir Alex.
Ben presto neanche si conteranno più le partite in cui Giggs si rivelerà decisivo e migliore in campo.
Una di queste, una delle tante, proprio come le amanti che avrà in vita sua, è sicuramente la semifinale Replay di FA Cup contro l’Arsenal sul neutro di Villa Park.
14 aprile 1999.
Ancora i gunners di fronte allo United. Ancora una partita epica, storica, da diavoli, di quelle nate e partorite direttamente dall’inferno, con un bel biglietto di sola andata che non ammette repliche a lacrime versate. Una di quelle partite che iniettano sangue negli occhi dei gladiatori in campo ed anche di chi assiste allo spettacolo con il pollice verso o meno. Una di quelle partite che non ammette una rivincita ad una sconfitta cocente.
Partite in cui o sei dentro o sei morto.
Villa Park non trattiene il calore di quei due popoli, di quei due modi opposti, ma così simili, di intraprendere, amare e concepire lo sport più bello del mondo.
La partita si blocca sull’ 1-1 dopo il gol iniziale di Beckham ed il pareggio di Bergkamp, e dopo il rigore sbagliato dallo stesso olandese, ipnotizzato e neutralizzato dallo strepitoso Peter Schmeichel.
Come se non bastasse, come se il match non avesse ancora preso abbastanza bene i drammatici contorni della tragedia, a rendere tutto più difficile per i ‘red devils’, ci si é messo quella testa calda [e mi fermo qua] di Roy Keane, che, poco prima dei tempi supplementari, si è fatto espellere per un fallo stupido quanto un tantinello energico sul gracile Overmars.
Così, la partita regolamentare finisce ed iniziano altri trenta minuti di passione e sofferenze.
L’Arsenal sfiora a più riprese il vantaggio.
Il Manchester si difende gladiatoricamente.
Il muro rosso che Sir Alex Ferguson ha costruito davanti alla saracinesca danese è così solido che neanche un terremoto lo potrebbe abbattere.
Il pullman è parcheggiato sulla linea. Nessuno può spostarlo.
I gunners sbattono sempre contro la cerniera ermetica fatta da quei dieci uomini mandati al massacro, mandati al sacrificio per volere, per la gioia di un popolo che li vede come eroi, come ‘Dei’ e che, i loro santini, li hanno ben affissi sopra il proprio capezzale, pregandoli ogni notte prima di dormire.
La partita prende sempre più i tratti della tragedia greca.
Serve un break per spezzarla, per aprirla prima della lotteria infame dei rigori.
Ben presto, la svolta arriva.
A pochi minuti dal termine del secondo tempo supplementare, Ryan Giggs recupera palla nel bel mezzo della sua metà campo, e si lancia come un pazzo verso la porta di Seaman. Dribbla un avversario, poi un altro, poi un terzo. Arriva al limite dell’area dei londinesi e si getta in mezzo a due difensori che tentano il tutto per tutto per fermarlo, ma non sanno che l’unico modo per fermare quel gallese volante è sparargli. Stop.
Non ci sono altre alternative.
Così Giggs entra in area, defilato sulla destra e prima che il campo finisca fa partire dal suo sinistro fatato una sassata terrificante che si insacca sotto la traversa e trafigge l’incolpevole portiere con la coda.
Il Manchester United è in vantaggio. Il Manchester United vola dritto verso Wembley ed il merito è tutto della sua ala sinistra, di quella ala sinistra magnifica che ha preso per mano il suo popolo e lo ha condotto in cielo.
Come Best. Proprio come Best. Più di Best.
Altro che Sharpe ‘. Sharpe chi ?
Il calcio non ha memoria e riconoscenza.
Ryan si alza la maglia e va a festeggiare verso la sua panchina, inconsapevole che quell’esultanza passerà alla storia come la famosissima ‘chest hairy’, il petto pieno di peli ed orgoglio che l’Inghilterra non potrà mai più scordare.
La partita terminerà 2-1 per i diavoli rossi.
Lo United coronerà la stagione con uno storico treble che nessuno scorderà mai più.
Ryan Giggs diventa il simbolo di una generazione, diventa icona di una squadra che dominerà l’Europa ed il Regno Unito per i successivi 7 anni, proprio come, del resto, faceva già da molti anni.
Ryan Giggs, l’ala imprendibile che ogni avversario sogna di affrontare per, poi, scambiare con lui la maglia: sinistro vellutato, dribbling incredibile sia nello stretto che nello slancio e cross che descrivono delle parabole celestiali, che disegnano traiettorie che lasciano scie in cielo con su scritto ‘Spingimi’.
Ryan Giggs ben presto diventa il braccio destro di sir Alex Ferguson, uomo che sceglie accuratamente i suoi amici e chi deve stargli accanto, e dallo scozzese non si staccherà mai più.
Il gallese si afferma come allenatore in campo, come leader carismatico di una squadra piena di fenomeni.
Solo Roy Keane non prenderà mai ordini da lui.
La figura di Giggs si fa sempre più leggendaria, quasi come se quel ragazzo che sta diventando uomo non fosse umano, ma appartenesse a testi più o meno sacri, come se Ryan fosse mandato dal cielo per insegnare agli umani come si gioca e come ci si deve comportare nel calcio. Come si dribbla e come si calcia di sinistro.
Non c’è sfida che Giggs non vinca. No c’è trofeo che Giggs non alzi, tanto che, a 40 anni suonati, ed una carriera che ancora di andare in pensione proprio non ne vuol sapere, il buon vecchio gallese ha vinto qualcosa come 13 campionati inglesi, gli stessi vinti, per esempio, dall’Arsenal in tutta la sua storia [dal 1886], e più della metà di quelli vinti dalla sua squadra, lo United [20].
Ryan scende sui campi della Premier consapevole che solo un popolo lo odia, quello dell’altra metà di Manchester.
Il City.
La squadra che lo aveva scoperto ma che, sir Alex, riuscì a fargli rifiutare, anche con l’aiuto della madre.
L’amata madre gallese che li dette il cognome e la nazionalità, visto il non proprio idilliaco rapporto col padre, Danny Wilson, noto rugbysta della nazionale gallese.
Il piccolo Ryan si chiamò Wilson e prese parte alle nazionali minori inglesi fino a 16 anni, età in cui, in Inghilterra, si può decidere il proprio futuro.
‘Non porterò mai il suo cognome’ dirà una volta scelto il ‘surname’ della madre.
A noi, Wilson o Giggs, sinceramente avrebbe fatto poca differenza.
Quasi minima.
Si perchè sarebbero comunque rimasti ugualmente quei piedi fantastici ed un’ala sinistra così formidabile che ha creato un suo vero e proprio modo di giocare e di interpretare il calcio,
ed adesso che, la corsa, non è piu quella dei tempi migliori, la leggenda Ryan, alla soglia dei 41 anni, si è addirittura reinventato regista formidabile davanti la difesa che, grazie a quei sensibili arti magici, scova compagni nel bel mezzo del deserto. Arriva in zone dove i comuni mortali non provano neanche ad addentrarsi.
Ma non lui.
Non Ryan.
L’eterno Giggs.
L’uomo che sembra immortale.
La statua che, nel 2008, a 50 anni dalla tragedia dei Busby Babes, indossò la maglia dell’epoca, insieme ai suoi compagni, così perfettamente, nel derby di Manchester, che quasi sembrava nato per indossarla.
Solo lui però.
Non gli altri.
Perché Ryan non ha età.
È eterno, immortale. Quasi aleatorio.
Giggs, il ragazzo che a suon di correre e sgobbare è diventato mito e simbolo di uno sport magnifico tanto quanto lui. Il bambino che ha segnato in ogni stagione vissuta con i ‘red devils’, senza mai ricevere un cartellino rosso in carriera.
Se la vita fosse giusta, dolce e romantica, non dovrebbe mai far smettere di giocare Ryan Giggs.
Forse i giornali del 2765 parleranno ancora di un vecchietto terribile che, ad Old Trafford, fa ciò che vuole sulla fascia sinistra, e che i ragazzi piu giovani di lui di qualche secolo, proprio non riescono a fermare.
Perché, d’altronde, come disse una volta Èric Cantona, non proprio uno qualsiasi ‘Ryan Giggs è il calciatore più forte con cui io abbia giocato. Ed io, ho giocato con i più forti’.
Parola di King.
Parola di leggenda.
Leggenda, proprio come lui, un uomo straordinario vissuto tra gente normale.
Un calciatore incredibile che ha asfaltato record ed avversari.
Ryan, il ragazzino terribile, quello che ha preso l’eredità di Best e non l’ha più lasciata. Il vecchio giovane bambino gallese talmente innamorato della palla e di tutto ciò che gira in tornò ad essa, che di smettere di giocare a calcio e di emozionare cuori che ancora si sciolgono, pazzi d’amore, nel vederlo correre, per fortuna, proprio non vuole saperne.
Lunga vita, ragazzo.
Lunga vita, Ryan.

Ryan Giggs

1: http://m.youtube.com/watch?v=3GxhYklM_3M

2: http://m.youtube.com/watch?v=97lu0bAWXUM

3: http://m.youtube.com/watch?v=s3bWrF_GkbQ

Lee Sharpe

4: http://m.youtube.com/watch?v=AcUhIj7FdbM

5: http://m.youtube.com/watch?v=2RgUv6u1Pak

Ariel Ortega, l’asinello ubriaco..

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Sapete, ho sempre odiato chi si ferma alla fede e non riesce a vedere oltre, accecato dalla sua ottusità più estrema, come se avesse i paraocchi.
Ho sempre odiato, inoltre, anche chi ha bisogno di paragoni per capire la vita, per capire la realtà, per capire questo mondo stupendo che è il fùtbol.
Verso questi ultimi poi, quelli che devono mettere accanto due persone per capire caratteristiche e statistiche del cazzo, quelli che non arriverebbero mai ad una loro conclusione senza un confronto, io provo ribrezzo. Io li detesto.
Si. È sempre stata una mia convinzione. Magari sbagliata, ma mia.
Sempre l’ho detto e sempre lo dirò. Sempre lo ripeterò. Sempre. Non passerà giorno in cui, io, non lo farò. No. Fino a che il mio corpo me lo permetterà, fino a che avrò un filo di voce che riuscirá, sibillino e bastardo, ad uscire da questa bocca blasfema, quasi impercettibile, quasi insensibile, quasi maledettamente e totalmente invisibile, tenue magari come la carezza di una nonna, di quelle che ti rimangono sulla guancia per sempre, io lo farò. Fino a che il mio cuore riuscirà a provare anche la più benché minima emozione, io lo ripeterò.
Devo farlo.
Sposare una squadra, non vuol dire non vedere oltre.
Non poter godere di bellezze non proprie.
Ed ecco ad esempio perché, nonostante la mia assurda e cieca devozione al Boca, mi chiedo come non potrei urlare al mondo intero che Ariel Ortega, per me, è stato uno dei migliori poeti della pelota che io abbia mai visto solcare, incantare e seminare con tale talento ‘non umano’ un campo di calcio ?
Senza ombra di dubbio devo dirlo e ribadirlo.
Senza neanche pensarci troppo. No.
Si perché Ariel è stato letteralmente uno dei miei preferiti, uno dei miei idoli incontrastati, uno di quei ‘mostri sacri’ che hanno avuto il compito e l’onere di farmi innamorare di questo sport talmente tanto che adesso, io, non posso farne veramente più a meno.
Più del pane. Più dell’acqua che serve al mio corpo
Prima di tutto, adesso, per me, c’è il fùtbol e le sue divinità.
Una di queste, è appunto Ariel.
L’immenso Ortega. Lo stratosferico Ortega.
Amato da me come se fosse uno dei miei, acclamato dal mio cuore nonostante fosse simbolo e ‘Dio’ dell’altra, malvagia ed odiatissisma, parte di Buenos Aires, quella delle galline.
Ma questo non importa.
Ho sempre amato quel ‘flaco’ dai piedi così maledetti ed imprevedibili che poteva inventare magia e calcio da un momento all’altro.
Ha poca importanza che lui non abbia mai giocato per i miei colori, apparte nella piccola parentesi parmense, dove ha indossato gli stessi amati cromatismi bochensi.
Si perchè per il resto della sua esistenza, lui, ha sempre giocato solo e soltanto per quelli che non potranno mai essere i miei colori.
Lui ha giocato per anni in quello che, anche se bellissimo, non sarà mai e poi mai il mio stadio.
Lui ha mandato in estasi gente che non mi apparterrà mai.
Ha visto l’inferno ed il paradiso con una maglia che odio e sempre odierò.
Tutto questo, purtroppo, non importa. L’evidenza deve essere mostrata, detta, spiattellata e resa pubblica, al di lá dei colori, al di lá della fede, al di lá di una verità che molte volte può fare male.
Deve.
Per quanto l’odio possa sfociare nella più accecante delle nebbie che appannano vista e mente, la realtà, così come è, ahimè, va sempre detta, altrimenti si rischia di cadere nel patetico, nel ridicolo più buio e profondo, nel penoso più estremo.
E poco importa, quindi, che il mio cuore sia, come ben sapete e come già ho ampiamente detto, ormai colorato di giallo e blu così indelebilmente che neanche il più potente solvente del mondo potrebbe mai cancellarlo. Poco importa che sopra di lui, il mio corazon appunto, ci sia scritto ‘Xeneize’ e che esso si vanti con gli altri cuori nemici di aver vinto qualcosa come sei, meravigliose, stupende e pazzesche Coppe Libertadores.
Poco importa che quando parlo della Bombonera i miei occhi si illuminano come un tredicenne che racconta tutto eccitato ad un amico, all’uscita da scuola, di aver preso la sua prima, indimenticabile e romanticissima cotta per la ragazzina più bella delle medie. Poco importa che molte, anzi moltissime volte, canto completamente dal niente ‘Dale Boca’, come un pazzo, senza senso, che io sia nel bel mezzo del traffico o della notte più silenziosa di sempre. Poco importa che ormai ogni volta che il mio orecchio sente uno squillo di tromba od un colpo di tamburo intonare una qualsiasi melodia, la mia mente pensi e si diriga subito al delirio bochese della maestosa ‘Doce’, l’unica curva insieme, forse, alla Kop del Liverpool, che la si può realmente percepire in mezzo al campo, là, come, appunto, un dodicesimo uomo completamente impazzito ed indemoniato, che mostra la sua bava e la sua schiuma alla bocca all’avversario terrorizzato ed il suo orgoglio scritto sul petto, con dei caratteri così grandi che persino dalla Luna lo si può leggere senza nessun problema.
Poco importa tutto questo, e mille altre ragioni che mi portano ad odiare quei bastardi ‘millonarios’, perché Ortega, che lo si voglia o meno, purtroppo, è stato oltre tutto ciò.
Oltre quelle bandiere che sventolano sopra anime che vivono solo per quei quattro colori, il giallo ed il blu ed il rosso ed il bianco, due colori che mai andranno d’accordo, mai potranno sedersi ad un tavolo e provare ad intavolare una pace che nessuno vuole. Nessuno proprio. Mai.
Qua, nella terra dove i colori ancora contano qualcosa, nella nazione dove prima arriva la squadra e poi la moglie, il FairPlay viene mandato affanculo ogni maledetta, o benedetta, giudicate voi, domenica.
Ecco perché, se il Boca per me è una religione più che sacra, Ariel è comunque un profeta dannato e maledetto, ma pur sempre profeta.
Lui per me, è stato il calcio.
La favola del ‘burrito’ inizia il 4 marzo del 1974 nella lontana Libertador General San Martìn, ‘ciudad! più comunemente conosciuta come Ledesma, nome con cui questo piccolo centro di neanche 50.000 abitanti era conosciuto fino al 1950.
È qua, quasi al confine con la Colombia, che la fiaba dell’asinello dai piedi magici inizia, con i suoi primi passi nel mondo del pallone ed i primi calci a quell’amico che di lo a poco diventerà un compagno praticamente inseparabile.
Si perché quel piccolo asino non è uguale a tutti i componenti della stessa razza, puzzolenti, sporchi e primi della benché minima grazia e signorilità.
No. Assolutamente no.
Quell’asinello di nome Ariel, ma che tutti, fin da piccolissimo, chiamano appunto ‘burrito’, è dotato di un tocco fatato, incantato quasi magico, come se non fosse terreno, ma piuttosto uscito da una fiaba del grande scrittore Hans Christian Andersen.
‘L’asinello dal tocco umano’.
Si perché di animale, quell’asino, ha ben poco: sa parlare, sa dribblare, sa incantare chiunque cerchi di domarlo, perché nessuno può mettere una briglia alla fantasia.
Il ‘burrito’ sogna e fa sognare, nasce con il numero 10 marchiato a fuoco dietro la schiena ed ha un paio di piedi che hanno soltanto gli Dei, altro che gli umani, quegli umani che vorrebbero farlo essere come tutti gli altri. Utile al collettivo a dispetto dell’individualità.
Il piede destro di Ariel, invece, se ne frega di tutto questo e disegna parabole irreali, misteriose, inconprensibili come se la fisica si arrendesse a quel tocco vellutato ed applaudisse anche lei, inerme, entusiasta, estasiata e felice di tanto bagliore accecante, mandando a fanculo secoli di studi e formule del cazzo.
Soltanto un grazie, per tanta abbondanza anche in periodi di carestia.
Si perché, talenti così, nascono una volta ogni mai.
La sua immensa classe si nota subito: a sei anni riesce a palleggiare per ore con una lattina vuota; a dieci vince praticamente le partite da solo a suon di dribbling, robone e pallonetti non facilmente spiegabili; a 14 anni gioca già con i ventenni, altrimenti non ci sarebbe gusto, anche se anche con loro praticamente è lui a fare il bello ed il cattivo tempo.
Ariel muove i suoi primi passi professionistici nell’Atletico Ledesma, la squadretta della città.
Ortega incanta, lascia tutti a bocca aperta e trasforma in musica quel tonfo sordo che gli altri calciatori creano quando i loro vili scarpini toccano la palla.
Nell’estate, o nel ‘verano’, per dirla all’argentina, del 1991, la squadra della piccola città partecipa ad un torneo nella lontana ed immensa Buenos Aires.
Un torneo di quelli giovanili, dove i cacciatori di talenti arrivano con il coltello tra i denti pronti a darsi battaglia per mettere sotto contratto i giovani più interessati.
Quale miglior vetrina per quel ‘burrito magico’?
Ad una di queste partite assiste Gustavo Gutierrez, capo degli osservatori del River Plate dell’epoca che, non appena finito il match dell’Atletico Ledesma, si precipita ad una cabina telefonica, infila un gettone e chiama in società ‘Ho trovato un fenomeno!’ grida al dirigente di turno ‘Che faccio?’.
La sera stessa Gutierrez se ne torna a Nunez con la firma di quel ragazzino meraviglioso, di quel talento purissimo di appena 17 anni che, però, a detta di tutti, ha gia il carisma e la personalità di un veterano navigato.
Sembra già un faro scalfito da mille tempeste.
‘Ricordo ancora quel giorno’ dirà anni dopo Ariel ‘Arrivai a Buenos Aires con poco: una camicia, un paio di pantaloni e delle scarpe da gioco. Mai avrei immaginato che di li a poco avrei giocato per il River. La sera stessa della firma dormii in Hotel a spese della società. Iniziava una nuova vita’.
Ed iniziò davvero. Iniziò la leggenda del mitico e fantastico Ariel Ortega, ‘el burrito’.
L’Argentina era pronta ad accogliere un’altra immensa, sacra e favolosa divinità tra le sue enormi braccia. Ma questo non è un problema e mai lo sarà per la nazione sudamericana, visto che il suo pantheon è sempre ben propenso ad abbracciare nuovi ‘Dei’, sopratutto se hanno simili colpi e numeri.
Il ‘diez’ Ortega esordisce con la ‘banda’ a neanche 17 anni e di li in poi nascerà un amore che non incontrerà mai infamia e pugnalatori silenziosi.
Il River amerà Ortega per sempre.
Ortega amerà il River per sempre.
Sembra che niente possa fermarli..
Purtroppo però, in realtá, non appena l’asinello mette per la prima volta gli zoccoli in campo, qualche stupido inizia subito con gli insensati ed ingombranti paragoni con Maradona, il Dio ormai decaduto che tira i suoi ultimi calci senza più quella poesia e quella magia dei bei tempi andati.
‘I millonarios hanno trovato il loro Diego’gridano tutti.
Fottuti bastardi. Perché? Perché simili paragoni del cazzo?
Ortega non è Diego. Ortega è e sarà per sempre solo e soltanto Ariel.
Ma l’Argentina, ahimè orfana, ferita, impaurita e solitaria dopo la perdita di quel Messia bochense, traditore di un popolo che lo pregava al posto di Dio, cercava disperatamente un’altra sacra figura a cui aggrapparsi, a cui chiedere aiuto nelle sere in cui c’è ne era bisogno. Qualcuno che asciugasse le sue lacrime e quelle del suo popolo, quel popolo violento e passionale che si accendeva con poco.
Tutti volevano che questo nuovo Dio fosse Ortega.
Tutti volevano Ariel, non sapendo, però, che il ‘burrito’ aveva spalle troppo piccole per una responsabilità così grande.
Il paragone schiaccia subito l’asinello che, purtroppo, si accende ad intermittenza, che non ingrana quasi mai, ma quando lo fa, illumina anche i cuori più bui.
La sua luce è così abbagliante che il Sudamerica si scalda soltanto nel guardarlo.
Acceca anche chi, quei colori, li odia davvero.
Ariel grazie a quei colpi di classe ubriacanti, intensi e volatili come le cose belle delle vita, colpi che soltanto qualche anno prima abitavano solo ed esclusivamente dall’altra parte di Buenos Aires, quella dove dorme e batte la Bombonera, la mia Bombonera, conquista i suoi tifosi e tutto un popolo che, finalmente, ha trovato un nuovo idolo, un nuovo dieci, un nuovo sacerdote che porti avanti quella religione biancorossa.
Quella ‘banda’ che ha sempre cercato, delle volte riuscendoci, moltissime altre invece no, di contrapporsi al potere ed al fascino che i maledetti bochensi hanno esportato nel mondo, facendone praticamente una religione universale ed itinerante, con tanto di altari e reliquie, una setta che veste i suoi adepti con una maglia blu squarciata da una meravigliosa striscia gialla.
Se in Paradiso tutti fossero vestiti così, c’è chi si suiciderebbe per andarci.
I ‘millinarios’, questa supremazia di carisma e trofei, non l’hanno mai accettata, mai buttata giù, e sono sempre stati convinti di essere loro l’unica enorme fede calcistica argentina.
Ma sapevano di avere torto.
Dovevano trovarsi il loro sacerdote. E quest’ultimo arrivó quel lontano giorno del 1991, quando Enzo Francescoli e soci avevano un nuovo eroe da mandare in battaglia contro la poesia degli ‘xeneizes’: Ariel Ortega appunto.
All’ombra del Monumental ‘el burrito’ gioca cinque stagioni, vincendo tre campionati ma sopratutto riuscendo a [ri]portare al River per la seconda volta nella sua storia la tanto agognata Coppa Libertadores, vera e propria ossessione dalle parti di Nunez.
Era il 1996 e ‘La Banda’ saliva, dieci anni dopo, sul tetto più alto del Sudamerica dopo una notte magica, fantastica, indimenticabile.
Di quelle che rimarranno nei cuori di chi l’ha vissuta: vincitori e vinti.
26 giugno 1996.
Il River è chiamato all’impresa. La storia chiede agli uomini di Ramon Angel Diaz di ribaltare l’1-0 di ‘de Ávila’ subito una settimana prima dai colombiani dell’America di Cali.
Burgos, Diaz, Ayala, Rivarola, Altamirano, Escudero, Almeyda, Ortega, Cedrès, Francescoli, Crespo.
Sono loro gli uomini della storia per il River.
La partita inizia nel tripudio dei tifosi biancorossi.
Il colpo d’occhio toglie letteralmente il fiato.
Dopo sei minuti, i ‘millonarios’, spinto da un Monumental da brividi e lacrime, segnano la rete che riporta il tutto in parità: Almeyda serve Ortega che, dimenticandosi di essere ‘el nuevo Maradona’, sulla fascia se ne va incontrastato.
Il ‘burrito’ alza la testa e vede Crespo tutto solo in area che aspetta solo un pallone da trasformare in storia. Ariel con un tocco morbido lo serve e per ‘valdanito’ è un gioco da ragazzi trafiggere Oscar Cordoba e portare avanti i suoi.
Le famigerate ‘galline’ hanno azzerato la distanza dai colombiani, ed adesso l”Antonio Vespuci Liberti’, l’altro nome del Monumental, è una pentola a pressione a cui gli ‘Dei’ hanno scordato di aprire la valvola di sfogo.
‘River River’ lo stadio intero intona il nome dell’unico amore di quella gente delirante.
I giocatori con la banda rossa attaccano nel tentativo di segnare il gol vittoria e di non arrivare alla bastarda lotteria dei rigori, dove il fattore campo di azzera e la porta sembra così tremendamente piccola da far tremare gambe e cuore.
Il match però non si sblocca. Serve un’intuizione, una magia, un talento che funga da apriscatole per scardinare quella fortezza colombiana all’apparenza inscalfibile.
Il miracolo avviene al 59esimo, quando Crespo recupera palla al limite della sua area e parte all’assalto, arriva sulla trequarti avversaria e passa la palla ad Ariel Ortega che non ha un buon controllo ma che, una volta perso il pallone, si lancia ugualmente sulla palla, costringendo Corboba all’uscita disperata.
Il portiere serve il pallone ad Almeyda che dalla destra crossa verso il centro dell’area dove Crespo è solo e non può far altro che segnare con un colpo di testa facile facile, sotto la hinchada degli ‘Los Borrachos Del Tablon’, e cioè ‘gli ubriachi degli spalti, i tifosi più caldi de ‘La Banda’, il gol che dopo una decade riporta il River in cima a quel fantastico continente che è il Sudamerica.
Francescoli, Ortega Crespo e compagnia cantante sono riusciti nell’impresa storica di conquistare la seconda, ed ultima [sempre meglio sottolinearlo, gallinas], Libertadores nella storia dei ‘millonarios’.
Ariel, il nostro eroe, diventa un idolo per quei tifosi che lo amano e lo venerano come si fa con le divinità pagane, ma che però, l’estate successiva, lo devono ahimè salutare.
Giusto il tempo di non vedere il River vincere la Coppa Intercontinentale a Tokyo per via del famoso gol di Del Piero che, all’81esimo, segna la rete decisiva in una delle finale più tirare della storia.
Dopo quella cocente sconfitta, è giunto il momento per l’asinello di volare verso l’Europa. Il grande calcio lo chiama. Il nuovo Diego deve dimostrare di essere pronto anche per il vecchio continente. Le sue valigie sono pronte. Aspeta solo una chiamata. E ciò avviene giusto qualche mese dopo la notte giapponese, quando ad alzare la cornetta e chiamarlo è il Valencia.
La Liga è pronta ad accoglierlo, ma è lui a non essere pronto per la Liga.
Nel campionato spagnolo emergono, infatti, i primi ‘pericolosi’ limiti caratteriali del ‘burrito’: Ariel cade in ogni provocazione che gli viene lanciata, si incaponisce in dribbling senza senso, non proprio adatti ad un calcio che punta molto alla concretezza come quello europeo, e, come se non bastasse, fuori dal campo si prende qualche libertà di troppo. Anzi. Se ne prende molte. I vizi pian piano invadono il suo regno, e lui, sinceramente, non fa niente per evitare che questo accada.
In campo non assomiglierà molto a Maradona, ma fuori la distanza si assottiglia, e di molto.
Sul rettangolo verde la sua classe è visibile solo a sprazzi, ma i tifosi se ne fegano altamente, tanto che lo sollevano ad idolo ugualmente.
Quei piedi, a loro, basta solo immaginarli.
Società ed allenatore, Claudio Ranieri per l’esattezza, non sono in realtà contenti né del suo rendimento in campo né tanto meno di quello fuori.
Il ‘burrito’ troppe volte scambia la scottante palla con la più comoda bottiglia.
Così che il campo non lo vede quasi mai e la, solo potenzialmente, coppia atomica con Romario, in partita, si vede zero volte.
È così che, dopo una sola stagione, l’asinello prepara di nuovo le valige per una nuova avventura: la Serie A lo attende, ed in particolare la Sampdoria.
In maglia blucerchiatia Ortega non cambia il suo modo di giocare: la maggior parte della partite è quasi impalpabile, ectoplasmatico, forse più concentrato a progettare in quale bar spassarsela la sera stessa che, invece, pensare a dove indirizzare la palla.
Quando, però, quelle pochissime volte il ‘piccolo burro’ si mette in testa di fare il fenomeno e di giocare da ‘diez’, la poesia invade Genova e tutta l’Italia intera: Ortega pennella parabole che prima del suo arrivo non esistevano, calcia punizioni così perfette che, una volta terminate in rete, esultano persino gli avversari.
Ariel inventa calcio dove calcio non c’era. L’asinello, quando vuole, diventa puledro di razza e regala emozioni a chi di questo sport si nutre.
Troppa magia nel suo tocco, troppa eleganza in quei movimenti che si insinuano tra avversari costretti alle randellate più vigliacche per fermarlo.
Destro, sinistro, colpo di tacco ed esterni da paura. Niente. Niente che quel maledetto vagabondo ubriacone non sappia fare, se solo si mettesse in testa di giocare seriamente.
Di giocare da Ortega, e non da Maradona.
Purtroppo però la stagione per la squadra genovese non va affatto bene, tanto che la Samp a fine campionato retrocede ed Ariel è il pezzo più pregiato del mercato che di li a poco inizierá.
Le grandi squadre però non possono permettersi un tale giocatore, talento si, ma discontinuo da far rabbia.
Alla fine la spunta il Parma, squadra dove il destino bastardo ha fatto si che giocasse un suo grandissimo ex compagno di squadra, anch’esso amico e guerriero di mille battaglie e gioie, Hernan Crespo, con cui vince una SuperCoppa italiana a stagione ancora da iniziare, ai danni del Milan del neo acquisto Shevchenko e della pantera nera George Weah.
I rossoneri passano in vantaggio al 59esimo con gol di Guglielminpietro, ma proprio Crespo pareggerà sette minuti dopo e Boghossian, nel pieno recupero, gelerà San Siro con un colpo di testa che porta i ducali in Paradiso.
Sembra proprio giunto il momento buono per Ortega per fare il tanto agognato salto di qualità, ma ahimè, neanche stavolta è quella buona: Ariel ricade nel suo maledetto vizio di incaponirsi troppo in giocate fini a se stesse, mentre fuori dal campo troppe volte cerca felicità nel fondo di una dannata bottiglia.
A fine stagione, così, finisce la sua, non certo positiva, avventura italiana.
Ariel fa rotta verso casa: torna al River.
Con’La Banda’ ritrova finalmente lo smalto dei bei tempi andati, come se l’aria di casa lo avessere rigenerato, tanto che, insieme a compagni del calibro di Radamel Falcao, Diego Buonanotte, Sebastian Abreu e Alexis Sanchez, riporta la gente del Monumental sulla vetta più alta del paese, vincendo, con i ‘millonarios’, un campionato mai in discussione: il Clausura 2002.
Ben presto il nome di Maradona torna ad accoratarsi al suo. Ed ad Ariel questo non piace.
A 28 anni decide così di scappare da quelle voci e di affrontare di nuovo un’avventura in Europa: stavolta ad aggiudicarsi i suoi servigi sono i turchi del Fenerbahce.
Dopo un inzio di stagione tutto sommato postivo, a febbraio il ‘burrito’ viene convocato dalla nazionale albiceleste per una partita.
Niente di strano direte.
È no.
Ariel, infatti, vola in Argentina, ma una volta riunitosi con amici ed ex compagni, decide di non fare più ritorno sul Bosforo.
La dirigenza dei ‘canarini gialli’ va letteralmente su tutte le furie. Porta l’asinello in tribunale e vince la causa, forte del fatto che Ortega aveva ancora tre anni e mezzo di contratto con gli acerrimi nemici del Galatasaray.
La FIFA lo squalifica fino alla fine dell’anno e lo costringe a sborsare la cifra monster di 11 milioni di dollari.
Dopo questa mazzata devastante, Ariel decide di dire addio al calcio.
Qualche mese dopo ci ripensa, e si lega al Newell’s Old Boys riuscendo, dopo 12 anni, a far si che ‘la Lepra’ diventi nuovamente campione argentino.
Due anni dopo torna al River, poi ancora via, poi ancora il ritorno. L’ultimo.
Qualche mese dopo, indossando tra le altre anche la maglia dell’All Boys, decide di appendere definitivamente le scarpette, foderate di velluto ed impreziosite con la canfora, al chiodo.
Stavolta si.
È la fine sul serio.
La fine di una mito che non ha saputo reagire e reggere l’ingombrantissimo paragone col ‘Dios’ Maradona.
Come nel 1994 negli U.S.A., quando fu mandato nella mischia, letteralmente allo sbaraglio, dopo la squalifica per doping di Diego.
O come in Francia nel 1998, dove Maradona era ormai lontano fisicamente ma mai con la mente e lo spirito per il popolo albiceleste.
Ortega lo percepisce, lo subisce tanto che non gioca bene. Anzi. Nei quarti di finale contro l’Olanda, dopo un fallo su di lui di Jaap Stam, non sanzionato dall’arbitro, il burrito si alza e, precedendo di 8 anni Zinedine Zidane, rifila una testata al portiere ‘orange’ Van der Sar. Espulsione e doccia anticipata. Sarà un harakiri clamoroso per lui e per la sua intera nazione, visto che, qualche minuto dopo, per l’esattezza all’89esimo, Dennis Bergkamp segnerà un gol splendido di esterno, dopo aver sbeffeggiato Ayala, che porterà il risultato finale sul 2-1 per l’Olanda, con tanti saluti all’Argentina ed ai suoi miliardi di ‘Dei’ incompiuti.
Ai suoi miliardi di ‘nuovi Maradona’.
Ed uno di questi, è stato proprio Ortega, fenomeno della pelota e della bottiglia, asinello magico che pian piano è diventato sporco ed ubriaco, giocatore sublime che non ha mai fatto girare la testa così come giravano i suoi piedi ed i coglioni di chi credeva veramente in lui.
Piedi fatati di un uomo normale, corrotto e vigliacco, un Dieci incompleto che è sempre scappato dalla realtà e dalla durezza della vita ricercando nell’alcol, risposte che non ci sono.
Un fantastico trequartista che inventava fùtbol come pochi nella storia.
Soltanto per pochi intimi, ma vi giuro che ne era capace.
Perché, come disse di lui una volta Daniel Passarella ‘Se Ortega avesse avuto i
Un cervello, anche minimo, anche piccolissimo, con quei piedi avrebbe potuto giocare fino a settanta anni. Anche da fermo. Non avrebbe fatto importanza’.
Invece niente.
La storia ha voluto altro per lui.
Ha voluto sbronze e sequestri, risse ed un talento gettato in uno squallido cesso senza neanche avere l’accortezza di tirare la catenella.
Ha voluto un mondo che, forse, non meritava.
Gli ‘Dei’ del calcio ancora piango per lui, per quel che poteva essere e per quello che, invece, non è stato.
Per il ragazzo che tutti chiamavano Maradona, ma che, in realtà, voleva soltanto essere Ariel Ortega detto il ‘burrito’, di mestiere creatore di fùtbol.

1: http://m.youtube.com/watch?v=3zhTHp0JJ04

2: http://m.youtube.com/watch?v=4ISvST_SvSc

3: http://m.youtube.com/watch?v=4yv9YwDAG6o